Bologna

Ma il Pd è quello che non entrerebbe mai in un sexy-shop?

11 Novembre 2014

Succede che nella gran mole di scontrini al vaglio della Guardia di Finanza, che scandaglia quelle che sarebbero le spese pazze dei consiglieri regionali emiliani, ne spunta uno riconducibile inequivocabilmente a un sexy shop. Non si sa con quale meccanismo di esclusione, ma quel che un tempo ne sarebbe stato l’utilizzatore finale, cioè il solito maschio, viene invece scartato dai finanzieri che dirottano la loro attenzione su una donna. Si sorprende solo qualche anima bella ancora fuori dal tempo, dal momento che le statistiche ormai parlano di una solida frequentazione femminile. Le donne indagate sono sei e il sensualissimo sospetto cade su una consigliera del Pd, certa Rita Moriconi. Il valore dell’oggetto si aggira sui settanta-ottanta euro, ma perdonerete se non siamo (ancora) in grado di associare la cifra a un oggetto ben preciso, promettendovi per il futuro un’attenzione maggiore. Certo non trattasi di un paio di modeste manette, in cui tintinnio peraltro ha spesso accomagnato il nostro tempo.

La Repubblica intesa come giornale tiene calda la questione con un titolo partcocolarmente ad effetto – “Emilia, spese folli per cene e sex toys” – e poi va sparata sulla consigliera Moriconi, alla quale pone, senza fronzoli, domande piuttosto dirette. Ovviamente l’elemento primario  sarebbe l’eventuale malversazione, cioè l’aver scaricato sulla comunità il costo di un piacere assolutamente personale, ma in questo caso l’interesse pare cappottarsi in favore di una sessuosa pruderie. La signora Moriconi, che nella foto a corredo del pezzo ha un sorriso aperto e luminoso, non ha solo una reazione sorpresa, con cui ovviamente respingere l’accusa, ma persino sdegnata per i “contorni” imbarazzanti del caso. «Io avrei comprato un sex toy? – si chiede retoricamente -. Neanche per sogno, sono una persona seria e non ho mai messo piede in un sexy-shop». Poco più avanti, alle insistenze del cronista, ribadisce con forza, introducendo l’elemento sociale: «A me dispiace deluderla, ma non so di cosa stiate parlando. Io sono una persona perbene, ho famiglia, faccio il mio lavoro di politico e negli atti che mi hanno notificato questa spesa non c’è e non ci può essere».

Come si dice in questi casi: l’indagine giudiziaria farà il suo corso. Qui semmai è interessante capire il meccanismo psicologico che spinge una consigliera regionale del Partito Democratico a considerarsi seria perché non ha “mai messo piede in un sexy-shop”. Non solo: a dare ulteriore forza alla sua tesi vagamente perbenista, ponendo sul piedestallo di una condizione sociale complessiva il sempreverde «ho famiglia», che in questo caso, notati gli imbarazzi, assomiglia di più al “tengo famiglia”.

Ingenuamente si pensa spesso che il Pd sia più avanti, sia più consapevole della vita che gli scorre intorno, senza scomodare una certa modernità, che non si fermi alle retrovie catto-qualcosa per cui considerare peccaminosa, scandalosa o inopportuna, la banalissima frequentazione di un sexy-shop. E magari l’acquisto di un oggettino. Ai nostri tempi, che non contemplavano ancora l’uso di internet e dove ai sexy-shop si andava almeno travestiti da tenente Sheridan, questa linea di confine era rappresentata  dai film porno. Chi ammetteva tranquillamente di averli visti e se ne faceva pure un vanto, chi raccontava di averne visto uno ma distrattamente, chi si scandalizzava al solo sospetto.

Tempo ne è passato, ma i meccanismi sono sempre quelli.

 

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