Bologna

Eppur si muove? Cosa cambia con la convention bolognese del PD

17 Novembre 2019

La tre giorni bolognese “Tutta un’altra storia” non rappresenta una vera novità per il PD. Negli anni si sono susseguite scuole di politica, assemblee e altri momenti d’incontro che hanno ospitato tematiche di rottura. La novità dell’incontro bolognese è il contesto in cui si colloca.

La convention non è uno sporadico evento formativo, organizzato tanto per soddisfare il bisogno di cultura politica dei militanti, ma un evento elettorale. Tra un paio di mesi, in Emilia-Romagna si svolgono le elezioni regionali più importanti per il centrosinistra, che rischia di perdere il simbolo stesso del suo buongoverno. Non è neanche un evento d’area, organizzato da una nicchia per marcare la propria differenza con la gestione centrale del partito. Si tratta di un’iniziativa rotonda, organizzata da Gianni Cuperlo in qualità di presidente della fondazione PD, e presenziata dai principali esponenti.

In merito ai contenuti proposti, di rottura con il modello economico dominante, declinazione italiana del neoliberismo, essi si intravedevano già nel 2012, con Pier Luigi Bersani segretario e Stefano Fassina responsabile all’economia. Le tergiversazioni del segretario, il quale associava l’alleanza al centro alla piattaforma di sinistra, dettero spazio al fenomeno renziano. In seguito, quelle istanze diventarono mero strumento di nicchia, custodito dentro una melassa informe autodefinita “liberal”.

L’evento bolognese rappresenta quindi una svolta perché in un momento cruciale della vita del partito si chiede il coraggio di terminare la fase liberal per occuparsi di giustizia sociale. L’intento è di riconnettersi con il proprio popolo, ponendo la redistribuzione della ricchezza non come strumento di risanamento dei conti pubblici ma come cambio paradigmatico del discorso politico. Un discorso che abbandona la retorica del merito per lasciare spazio all’equità sociale e alla lotta contro la povertà.

Ma i temi della giustizia sociale, rimarcati nella relazione introduttiva di Fabrizio Barca, non mettono da parte i diritti civili. La relazione finale del segretario Nicola Zingaretti ha giustamente ribadito la volontà di approvare lo ius culturae, perché i due temi non sono esclusivi, ma si sostengono l’uno con l’altro.

Ovviamente è presto per i toni trionfalistici. Il PD è ancora la melassa informe ereditata dal renzismo ma plasmata ben primo del suo arrivo. Almeno tre criticità permangono. In primo luogo, il consenso del PD vive nei maggiori centri urbani i cui abitanti non si sentono particolarmente toccati dalla globalizzazione e dalle regole europee. Per quanto i sondaggi affermino che questi elettori siano i più disponibili a risanare i conti del paese con una patrimoniale, non sarà facile spiegare loro la necessità di una manovra redistributiva ben più ampia. In secondo luogo, numerosi dirigenti ritengono che sia sufficiente sbarazzarsi della fase renziana per riconnettersi con le masse, quando è necessario rimettere in discussione l’intero percorso dal 1989 a oggi. Infine, non è presente una classe dirigente credibile. Jeremy Corbyn e Bernie Sanders hanno ottenuto successo perché hanno sempre sostenuto istanze radicali, in contrasto con l’establishment del partito.

Al contrario, gli attuali dirigenti del PD sono stati parte dell’establishment durante i DS e la gestione Bersani. Parte quindi del problema e non della soluzione. Le stesse voci critiche che hanno man mano lasciato il partito non hanno elaborato piattaforme consistenti. Si pensi alle giravolte di Civati, alle ipotesi rossobrune di Stefano Fassina e alla contrapposizione più personale che politica con Matteo Renzi dei fuoriusciti di LEU. Si prepara una svolta, ma c’è ancora molto da lavorare per far rinascere la connessione sentimentale tra il PD e il suo popolo, mettendosi alle spalle il partito delle ZTL.

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