Bologna
«Tra un anno Lega o 5 Stelle possono conquistare la Regione Emilia Romagna»
Un tempo era la regione rossa per antonomasia. Oggi si va colorando di un blu sempre più intenso. Quello del centrodestra a trazione leghista. A diciannove anni dalla caduta di Bologna, il “Cremlino d’Italia”, per mano di Giorgio Guazzaloca, l’incubo della sinistra si è quasi del tutto realizzato, ma al quadrato. «Il PD ha ottenuto il 26,3% in una regione dove aveva il 37% nel 2013 e il 46% nel 2008. In altre parole, ha perso quasi la metà dei suoi elettori in dieci anni» osserva in un’intervista a Gli Stati Generali Riccardo Brizzi, professore associato di storia contemporanea presso l’Università di Bologna e visiting professor a Sciences Po Paris.
Un risultato piuttosto sconfortante, sia per il PD che per un leader, Matteo Renzi, che fino a ieri sognava di diventare il “Macron italiano”. «Se Renzi avesse voluto fondare un proprio movimento lo avrebbe dovuto fare subito dopo il referendum [del 4 dicembre 2016]. Probabilmente ne avrebbe avute le forze, e non sarebbe rimasto impantanato nelle lotte interne che, nell’ultimo anno e mezzo, hanno minato non solo la solidità del partito, ma anche la sua leadership e la sua credibilità politica» spiega Brizzi (che ha curato, insieme a Marc Lazar, “La Francia di Macron” – Il Mulino).
Crede che sia corretto definire una débâcle quella del Partito Democratico in Emilia-Romagna?
Direi proprio di sì, e per comprenderlo è sufficiente guardare in prospettiva l’ultimo decennio. Il PD ha ottenuto il 26,3% nel 2018 in una regione dove aveva il 37% nel 2013 e il 46% nel 2008. In altre parole, ha perso quasi la metà dei suoi elettori in dieci anni. Nel 2008 aveva ottenuto circa un milione e 300mila voti, nelle ultime elezioni ha avuto 669mila consensi. È senz’altro legittimo parlare di débâcle per un partito che perde metà dei propri elettori in dieci anni.
Questo in una regione dove ci sono le roccaforti tradizionali della sinistra. Come Ferrara, che a differenza di Bologna non era mai passata al centrodestra prima, e invece adesso ha sostenuto con forza la Lega di Salvini. Quali sono le ragioni profonde di questa disaffezione?
Bologna era passata al centrodestra nel ’99 in un contesto molto particolare, quello della candidatura nei DS di Silvia Bartolini, percepita come una paracadutata da Roma. Storicamente però, il PD a Bologna è leggermente più forte del PD nel ferrarese, quindi a Ferrara non c’è una maggiore fedeltà storica verso il PD rispetto a Bologna. Detto questo, già alle amministrative nei comuni del ferrarese il PD era apparso molto in crisi. Basti pensare a Bondeno, dove il centrodestra veniva riconfermato nel 2016 con Bergamini; a Comacchio, dove nel 2017 vinceva una civica guidata da Marco Fabbri; a Cento, dove nel 2016 il sindaco uscente di centrosinistra Piero Lodi non riusciva ad arrivare nemmeno al ballottaggio… per farla breve, mi sembra che sia stata una débâcle ampiamente annunciata. Alle regionali del 2014 l’affluenza in Emilia-Romagna era piombata al 37%, e alle amministrative del 2017 (le prime dopo il referendum costituzionale del dicembre 2016) il PD in Emilia-Romagna riusciva ad aggiudicarsi appena 5 comuni su 20 in Emilia-Romagna, nessuno dei quali sopra i 15mila abitanti peraltro. Tutto questo avrebbe dovuto mettere in allarme, almeno un po’, il partito cardine della ex regione rossa, diciamo così.
E invece c’è stato un exploit della Lega.
In realtà il successo della Lega in Emilia-Romagna non è un fenomeno così nuovo. O meglio, qui la Lega era andata molto male alle ultime politiche. Ma in quel momento era molto indebolita anche a livello nazionale, a causa degli scandali che avevano coinvolto Umberto Bossi e della successiva faida interna. Ma attenzione, già alle regionali del 2010 la Lega aveva ottenuto il 14% dei voti in Emilia-Romagna, nonostante un PDL che allora era molto più solido. All’epoca era al 25%, oggi Forza Italia e Fratelli d’Italia insieme raggiungono a mala pena il 14%. La Lega ormai è impiantata in Emilia-Romagna da circa un decennio.
Perché la Lega ha tutto questo appeal?
Diciamo che la Lega offre un’agenda molto chiara. In Emilia-Romagna una risposta essenzialmente securitaria al fenomeno migratorio e alle incertezze dell’opinione pubblica ha sicuramente giovato alla campagna elettorale di un movimento come la Lega. Che però, sottolineo, ha potuto godere anche della debolezza dei suoi partner di coalizione: tutta una quota dell’elettorato che prima confluiva su Silvio Berlusconi, oggi vede un’alternativa in un leader più giovane, anche anagraficamente.
Come può ripartire il PD in Emilia-Romagna adesso? Secondo lei la regione è contendibile? Dopo queste elezioni non è più impensabile un presidente della regione di centrodestra…
Assolutamente no, si vota tra un annetto e la regione è senz’altro più che contendibile da tre aree politiche: non solo il Partito Democratico e il centrodestra, ma pure il Movimento 5 Stelle potrebbe avere voce in capitolo. Anche se, storicamente, in elezioni regionali e amministrative quest’ultimo è più debole perché ha un minore radicamento sul territorio. Di sicuro c’è che il centrodestra ha tutte le carte in regola per contendere la regione al PD.
Se l’Emilia-Romagna ha guardato alla Lega, le Marche hanno votato Movimento 5 Stelle. Quali sono le ragioni di questa differenza tra due regioni che, grosso modo, sono storicamente e culturalmente affini?
Le ragioni sono varie. Bisogna tenere presente che l’Emilia-Romagna, economicamente, è ancora una regione piuttosto solida, dove la disoccupazione è intorno al 5,8%. Nelle Marche, invece, il tasso di disoccupazione è superiore alla media nazionale. E vari studi in questi giorni hanno mostrato che la mappa del voto per il M5S si sovrappone a quella della disoccupazione. La promessa del reddito di cittadinanza è stata senz’altro accolta bene dalle aree più disagiate del Paese. Del resto il M5S ha attecchito nelle Marche più che in Emilia-Romagna sin dall’inizio, basti pensare che era il primo partito già nel 2013, con il 32% dei voti, addirittura superiore all’intera coalizione di centrosinistra. A questa situazione di partenza si sono aggiunti altri fenomeni, a partire dalla situazione economica particolarmente critica, specie nella provincia, passando per le questioni della ricostruzione post-terremoto e i recenti fatti di Macerata. Questo insieme di fattori spiega perché il M5S abbia raggiunto una percentuale intermedia tra il 26-27% delle regioni settentrionali, e la valanga di voti che ha preso in Meridione. Le Marche ormai sono una regione di confine.
Come immagina il futuro del PD, e quali dovrebbero essere le mosse per ripartire?
La previsione più semplice da fare è che adesso si scatenerà una guerra intestina al partito per la successione a Matteo Renzi. Una guerra che determinerà non soltanto gli organigrammi interni, ma anche le strategie politiche nel nuovo parlamento. D’altra parte, la situazione del PD mi sembra estremamente critica, ma si colloca all’interno di un trend europeo. Attualmente la socialdemocrazia è in crisi in tutta l’Europa. Nel ’99 tredici governi europei su quindici erano guidati dal centrosinistra, oggi siamo ai minimi termini. La socialdemocrazia è scomparsa in Francia, è in una posizione di subordine in Germania, è all’opposizione da tempo in Inghilterra e in Spagna. Adesso il Partito Democratico deve senz’altro ripartire tentando di riconnettere un tessuto sociale che oggi è profondamente lacerato. E questa lacerazione giova a una destra che storicamente ha una retorica molto più divisiva rispetto a quella dei partiti socialdemocratici. La contrapposizione tra vincenti della globalizzazione ed esclusi, tra italiani e immigrati… sono tutti temi che fondano il consenso per il centrodestra su una disgregazione del tessuto sociale. Credo che il PD dovrà tenere conto di questa situazione e ripartire da lì, se non vuole costruire un castello su basi troppo fragili.
Lei lo vede un PD a sostegno, magari esterno, di un governo M5S?
A livello programmatico, e propriamente politico, la ragionevolezza porterebbe a dire di no e non solo perché i due programmi sono estremamente distanti. Il Partito Democratico è stato umiliato in due momenti nel 2013, sia quando aveva tentato di costruire una coalizione insieme ai pentastellati (ricordiamo lo streaming di Bersani col senatore Vito Crimi…), sia al momento dell’elezione del presidente della Repubblica. Di conseguenza è difficile immaginare perché il PD dovrebbe sostenere il M5S adesso, da una posizione di minoranza. Visto anche che negli ultimi cinque anni è stato trattato come il partito dei padroni, delle banche eccetera.
I fattori che invece farebbero propendere per una possibile alleanza sono due. Il primo è che l’Italia è inserita in un contesto più ampio, quello europeo, che chiede stabilità. E in questo senso il PD sarebbe un partner che tranquillizzerebbe Bruxelles e i partner europei molto più di un’alleanza tra M5S e Lega. L’altro fattore è che ovviamente, i parlamentari neoeletti tra le fila del PD ci penseranno due volte prima di far cadere o di interrompere la legislatura, perché a quel punto il posto in una futura assise parlamentare non sarebbe garantito.
Secondo lei Renzi potrebbe accarezzare l’idea di un percorso macronista a questo punto?
A Renzi fu consigliato già in passato di intraprendere un percorso alla Macron, e molti politologi avevano sottolineato come la personalizzazione del partito (che era addirittura stato ribattezzato PDR, cioè Partito Democratico di Renzi) lasciasse intendere che si andasse in questa direzione. La mia personale opinione è che ormai sia tardi. Se Renzi avesse voluto fondare un proprio movimento lo avrebbe dovuto fare subito dopo il referendum. Probabilmente ne avrebbe avute le forze, e non sarebbe rimasto impantanato nelle lotte interne che, nell’ultimo anno e mezzo, hanno minato non solo la solidità del partito, ma anche la sua leadership e la sua credibilità politica. Quindi mi sembra un po’ tardi, a questo punto, per un’ipotesi di questo tipo. Da ultimo faccio notare che Macron ha potuto realizzare il suo percorso politico perché si trovava all’interno di un sistema e di un contesto istituzionale che, grazie al sistema maggioritario e grazie all’elezione diretta del presidente della Repubblica, ha reso possibile fondare un movimento partendo dal nulla, e conquistare la presidenza nel giro di un anno. All’interno del sistema parlamentare italiano questo è molto più difficile.
Foto di copertina: Pixabay
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