Arte

Da street art a salotto art

13 Marzo 2016

La clamorosa protesta di Blu, che a Bologna piuttosto che vedere le proprie opere sradicate, esposte e vendute ad una mostra radical-chic le sta facendo cancellare, ha molti meriti. Tra i tanti, quello di suggerire, anche da noi, una riflessione sullo stato dell’arte della cosiddetta Street Art.

Da anni, ma soprattutto ultimamente, la Street Art è diventata il perizoma leopardato con cui il potere cerca disperatamente di apparire sexy. Quando una giunta Comunale, una Fondazione bancaria o chiunque rappresenti a vario titolo “le Istituzioni” vuole rifarsi una verginità davanti all’opinione pubblica, strizzando l’occhio alle generazioni più giovani  e ancora di più alle generazioni finte giovani, il format è sempre quello: si tirano su pochi spiccioli e li si getta in pasto agli Street Artists  che, buoni buoni,  si rendono disponibili all’Assessore o al burocrate di turno per “riqualificare” con “una bella mano di colore” ora questo ora quel pezzo di arredo urbano a costo zero o quasi.

La Street Art è cool, la Street Art è yeah!, la Street Art è cciovane, e allora usandola, io vecchio babbione in odore di massoneria o bolso politicante tutto regole e bandi pubblici, mi do’ una bella mano di vernice sulla faccia grazie all’impiego di un paio di ragazzotti coi piercing e le mani sporche, diventando anch’io così cool, così yeah!, così cciovane.

Da un punto di vista politico, il giochino è elementare fino al parossismo: eppure, fino alla scelta di Blu, ha funzionato sempre, nonostante fosse chiaro a tutti che una forma d’arte nata alla fine degli anni ’60 come reazione all’alienazione urbana, come gesto di ribellione a una società in cui contano tutti perché non conti davvero nessuno, nel momento in cui viene sistematicamente svenduta al peggior offerente, sottratta al proprio habitat naturale e riprodotta in cattività, è ovvio che – giocoforza – finisca per tramutarsi in qualcos’altro (e infatti ecco il nuovo termine coniato all’uopo, Urban Art).

Ma aldilà delle questioni semantiche e dei massimi sistemi, alla base c’è anche una contraddizione estetica che, trattandosi di Arte, non può certo dirsi secondaria. E’ dal XIX secolo, infatti, che l’Arte è stata sollevata dal compito ingrato di “rendere bello qualcosa”. Nessuno, per fare un esempio a caso nell’enorme mucchio, ha mai chiesto a Pollock di “rendere bella una tela”: eppure Pollock è l’artista più quotato al mondo.

Tuttavia, quando i Potentoni di cui sopra si rivolgono alla Street Art ecco che la richiesta è una sola: abbellire. Attenzione: qui non è in causa il fatto che dei pinguini sorridenti, o un palloncino a cuore o una farfalla che svolazza in un cielo limpido e blu siano o non siano piacevoli a vedersi (sicuramente lo sono), siano o non siano meglio di un muro grigio. Qui è in causa il fatto che il valore di uno Street Artist venga sempre, o quasi sempre, misurato col metro dell’abbellimento. Pensate se qualcuno fosse andato dal povero Pollock a dirgli “caro Jackson, vorrei che mi dipingessi la parete della cucina. Però il tuo dipping mi fa schifo, potresti disegnarmi la Pimpa?”. Ecco, questo è quello che ogni volta si sente dire il povero Street Artist, che una volte deve disegnare “a tema ippico”, un’altra volta “a tema pace del mondo”, un’altra volta deve dipingere il Cavalcavia Buccari di Zona 3 a Milano con parole come “amicizia”, “solidarietà”, “fratellanza”, roba che nemmeno l’Azione Cattolica negli anni ’50 (e forse si, in questo caso meglio il muro grigio).

Ma per questa deriva che è insieme politica ed estetica, grossa responsabilità le hanno anche gran parte degli Street Artist nostrani, i quali diversamente dai più celebrati colleghi internazionali (il Banksy che vive nell’anonimato, lo Shepard Fairey che finisce al gabbio perché, nonostante i milioni di dollari, continua ad andare in giro di notte, per strada, ad attacchinare illegalmente, il Barry McGee che nelle vie di San Francisco si diverte ancora con i bombings, gli Os Gemeos che non rinunciano a disegnare sui treni) sono stati ben felici di trasformarsi in addomesticate veline in perenne ricerca di visibilità. Allupati al pensiero di finire su un ritaglio di giornale da incorniciare in tinello, sono sempre stati disponibili a scuotere la bomboletta e a lavorare di buona lena per compiacere il committente, qualunque esso fosse, spesso in cambio del necessario per pagarsi il materiale e forse-forse di una pastasciutta in trattoria.

Certo la pecunia, a differenza della vernice, non olet: ma a lungo andare la pecunia finisce e con essa la ragion d’essere della Street Art.

Per questo bene ha fatto Blu a ricordare a tutti che la Street Art, per sua natura, non può spingersi oltre certi limiti. E per le stesse ragioni, è bello ricordare quanto fatto a Milano dal Comune con l’iniziativa “100 Muri Liberi“: non solo cento muri, tra cui molte delle storiche Hall of Fame, sono stati liberalizzati, ma a writers ed artisti è stata data libertà totale sia in termine di autogestione degli spazi che di contenuti.  Una scelta matura, che rispetta gli artisti e la loro arte (li rispetta molto più così, che se avesse dato loro i soliti pochi spiccioli buoni per una carbonara) invece che strumentalizzarli entrambi a questa nuova, confusa idea dell’abbellimento urbano, che rispetto all’Arte è altra cosa. Una buona idea che, però, l’Amministrazione ha pubblicizzato e sfruttato pochissimo: non sia mai che si parli delle buone idee, poi rischiano di diventare la norma!

*Per approfondire origine e nascita negli Stati Uniti del movimento della Street Art, suggeriamo il documentario di Sky Arte “Graffiti a New York“.

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