Bologna

Bologna, vittoria di Lepore certa, ma il futuro dello cittá è tutto da scrivere

11 Settembre 2021

Se le elezioni comunali che si svolgeranno a Bologna il 3 e 4 ottobre, contemporaneamente a Roma, Milano, Napoli e Torino, fossero la sceneggiatura di un thriller, sarebbero la peggiore sceneggiatura mai scritta. Perché si sa già come va a finire: a meno di imprevedibili e imprevisti cataclismi, il candidato del centrosinistra Matteo Lepore diventerà sindaco, vincerà al primo turno e probabilmente anche con un margine considerevole.

Eppure, intorno a questa storia, ce ne sono molte altre che vale la pena tenere d’occhio. Di Bologna si dice spesso che è un laboratorio della politica italiana. Al di là del trito luogo comune, chi è appassionato di politica italiana sa che fra piazza Maggiore e i portici, da un secolo a questa parte, avvengono cose che poi, qualche tempo dopo, diventano importanti per la politica italiana. Proprio a Palazzo d’Accursio, sede del Comune, i fascisti hanno fatto le prove generali della presa del potere, i comunisti hanno provato a diventare un partito di governo e poi hanno avviato quel dialogo con i cattolici che ha portato alla nascita dell’Ulivo di Romano Prodi. Nella piazza sul quale il palazzo si affaccia, ormai quasi quindici anni fa Beppe Grillo ha fondato il suo partito.

Allora è forse utile innanzitutto conoscere meglio i personaggi di questa storia. A partire dal sindaco uscente, Virginio Merola. Dieci anni fa, quando è stato designato un po’ rocambolescamente dal Pd e poi eletto, aveva detto di voler essere “il sindaco normale di una città speciale”. Tutto sommato ci è riuscito: non ha mai cercato la ribalta nazionale e ha delegato molto potere alla sua squadra. Una normalità di cui Bologna aveva bisogno dopo il terremoto di Guazzaloca, l’ubriacatura di Cofferati (e il relativo traumatico risveglio post-sbronza), i sei mesi di Delbono, costretto alle dimissioni da una vicenda dai risvolti pruriginosi e l’onta del commissariamento, gestito da Annamaria Cancellieri. In dieci anni Bologna è cresciuta, ha attirato investimenti internazionali che hanno creato migliaia di posti di lavoro e vissuto un boom del turismo che prima, di fatto, non esisteva.

Poi, però, è arrivata la pandemia e, soprattutto nelle prime fasi, Bologna è stata una delle città che hanno pagato il prezzo più alto. Anche in questo caso Merola ha mantenuto la linea, non si è mai lasciato scappare (a differenza di molti suoi colleghi) espressioni fuori posto, professando una calma responsabile in una città che, durante il lockdown, ha capito che senza l’energia degli studenti che sono la linfa vitale della sua università, probabilmente non sarebbe la “città speciale” di cui parlava Merola: non attirerebbe giovani cittadini dall’Italia e dal mondo, non mescolerebbe continuamente idee, storie e passioni, non renderebbe i bolognesi, per dirla col poeta, confusi e legati a migliaia di mondi diversi. E probabilmente non sarebbe così interessante nemmeno per i turisti

Sullo sfondo di questa campagna elettorale (ma molto sullo sfondo, almeno per adesso) c’è il tentativo di provare a immaginare come sarà la città in epoca post-Covid: la manifattura rimane la colonna vertebrale dell’economia cittadina, ma le partite più complicate si giocano sull’interconnessione con il mondo, sui servizi di qualità, sull’economia della creatività, sulla necessità di trovare un modo più intelligente di spostarsi (a breve, ad esempio, dovrebbe partire il cantiere per il tram), ma anche di trovare un modo per provare almeno a mitigare le differenze sempre crescenti fra i più ricchi e più poveri. E poi sta tornando il turismo, trainato anche dal fatto che l’Unesco ha appena dichiarato i portici patrimonio dell’umanità.

Ma i portici, alla fine sono solo un  simbolo: il cardinale Matteo Zuppi, un bolognese non di nascita (ce ne sono tanti in questa storia, compreso chi questa storia ve la sta raccontando), li ha definiti, con un’espressione efficacissima, “la casa che si fa città e la città che si fa casa”. Ma senza tutto quello che da secoli succede sotto le loro arcate, i portici sarebbero solo un mucchio di pietre armoniosamente disposte. E Bologna una qualunque città di provincia.

Il ruolo del protagonista è però di Matteo Lepore. Ha quarant’anni, per dieci è stato assessore e già dieci anni fa si diceva che stesse studiando da sindaco. Alla fine c’è riuscito, ma è stato molto più complicato del previsto. In tanti, dentro il Pd, hanno minacciato di sfidarlo, poi, alla fine, non se la sono sentita. Dalla sua parte c’era infatti un insieme di forze difficile da superare: il potente mondo della cooperazione, una parte dei centri sociali, pezzi significativi di Arci, di Cgil, molti operatori conquistati nei suoi anni di assessore alla cultura, le mitiche Sardine, comparse da nulla una sera di novembre in piazza Maggiore (e dove se no?) mentre Salvini marciava come un carrarmato, sicuro della conquista dell’Emilia rossa.

Un assessore potente, con una rete estesa di sostenitori, con un profilo molto di sinistra: è evidente che un personaggio così finisce per attirarsi anche parecchi avversari. Ha provato a mettersi di traverso alla sua corsa un altro giovane assessore, Alberto Aitini. Entrato in giunta a metà mandato sulla cresta dell’onda renziana che ha costretto Merola a un traumatico rimpasto, licenziando dalla sera alla mattina due assessori tecnici che non avevano protezioni nel Pd, con la delega alla sicurezza e al commercio si è saputo conquistare un vasto e reale consenso. Strizzando l’occhio a un elettorato (semplifichiamo al massimo) un po’ meno di sinistra di quello di Lepore. Aitini ha annunciato più e più volte la sua candidatura alle primarie per sfidare il moloch leporiano. Ma poi non si è candidato.

Anche perché, a un certo punto, Matteo Renzi ha calato sul tavolo la carta Isabella Conti. Isabella Conti, che ha, anno più anno meno, la stessa età degli altri protagonisti, è la sindaca di San Lazzaro, ricco e popoloso comune alle porte di Bologna, di fatto un’estensione della città verso est. Dopo il primo mandato è stata confermata con l’80% e questo, in politica, tronca ogni discussione sulle sue capacità amministrative. Pur avendo un pedigree di sinistra e di partito, è una dei pochi esponenti (pochissimi in Emilia-Romagna) che ha seguito Renzi in Italia Viva. Renzi (che conosce bene la zona per frequentazioni familiari) quando era segretario del Pd, ne ha fatto un esempio da seguire. E l’ha difesa quando, da sindaca, si è violentemente scontrata con le coop per una questione urbanistica.

Isabella Conti ha dimostrato che il fronte che sosteneva Lepore era maggioritario, ma non certo unanime: si è presa un quasi incredibile 40% alle primarie, poi si è ritirata in buon ordine a San Lazzaro dove deve completare il mandato, assicurando lealtà verso il vincitore. A sostenerla anche molti esponenti del Pd, quasi tutti quelli che, come Aitini, fanno riferimento a Base riformista che, per chi legittimamente è poco pratico della topografia del Pd, è la corrente di quelli a cui, per così, dire, Matteo Renzi continua a non stare troppo antipatico.

Vinto il duello delle primarie, Lepore ha costruito una delle coalizione più vaste mai viste nella storia della sinistra italiana: c’è il Pd, la lista renzian/calendiana di Isabella Conti, i Verdi, financo il Psi. Poi c’è Coalizione civica, un rassemblement dei vari cespugli di sinistra che dopo cinque anni di opposizione a Merola ha partecipato alle primarie al fianco di Lepore: un raggruppamento che va, più o meno, da Bersani ad alcuni esponenti dei centri sociali. Passando per Elly Schlein, vicepresidente di Bonaccini in Regione, dopo aver preso, soprattutto a Bologna, una valanga di preferenze. E poi c’è il Movimento 5 Stelle. Quello che 14 anni fa, in piazza Maggiore apriva il dialogo con il più usato degli insulti, che a Bologna ha avuto i primi eletti e i primi epurati e che oggi, almeno in città, è l’alleato più fedele del Pd. Paladino e garante di questa alleanza è Max Bugani, già consigliere comunale, già socio di Rousseau, già nello staff di Virginia Raggi a Roma. Roba da farsi scoppiare la testa.

Basta tutto questo a Lepore per vincere? Guardiamo ai precedenti, ovvero le elezioni regionali di un anno e mezzo fa, quelle in cui Bonaccini fermò l’avanzata inesorabile della destra a trazione leghista: Lucia Borgonzoni, la candidata di Salvini, la stessa che cinque anni fa costrinse Merola al ballottaggio, sfondò nelle campagne e nei piccoli centri. Ma nel Comune di Bologna la partita finì 65 a 32 per il centrosinistra, che all’epoca non aveva nemmeno l’alleanza con i 5 stelle.

Matteo Lepore ha, comunque, un avversario: si tratta di Fabio Battistini, imprenditore cattolico, dai modi cortesi e dai toni pacati, sul quale i leader di centrodestra, impegnati a scannarsi sulle altre città, hanno alla fine deciso di convergere più per mancanza d’alternative che per convinzione. D’altronde ribaltare il risultato delle regionali, convincendo più di un quarto dell’elettorato a passare da sinistra a destra, appare come una missione pressoché impossibile per chiunque. Battistini non urla, non fa polemiche sopra le righe. Per mesi, quando i dirigenti locali del centrodestra chiedevano lumi ai leader nazionali si sentivano rispondere, più o meno: “ma cosa volete da noi? Tanto a Bologna abbiamo sempre perso e perderemo anche stavolta”.

In questa storia ci sono i personaggi, ovviamente, ma ci sono anche i partiti. Il Pd non è certo paragonabile a quello che a Bologna rappresentava la più grande federazione comunista dell’Europa occidentale. Ma, pur con i suoi guai, continua ad avere un’organizzazione e un radicamento che nelle altre città è un sogno. La grande festa dell’Unità che ogni anno i volontari, peraltro proprio in questo periodo, continuano a mettere in piedi al parco nord è un piccolo miracolo della politica contemporanea.

Il Pd ha candidato il leader delle sardine Mattia Santori e Rita Monticelli, la professoressa di Patrick Zaki. Ma ha vissuto un piccolo psicodramma per l’esclusione di Alberto Aitini, che ha paragonato il suo siluramento alle “purghe staliniane”. Per solidarietà e per protesta, gli altri candidati di Base riformista hanno ritirato la loro candidatura e quindi non saranno nel prossimo consiglio comunale. Enrico Letta si è tenuto fuori con una certa eleganza da questa vicenda, ma è difficile credere che questa operazione sia stata condotta e portata a termine all’insaputa o con la netta contrarietà del segretario. Il segretario che fra poco più di un anno (o forse meno, chi lo sa) dovrà fare le liste per il Parlamento, peraltro senza sapere con quale legge elettorale si voterà e con il numero complessivo dei parlamentari passato da 975 a 600, quindi con molti posti in meno da dividere. Se la vicenda bolognese non è stata una dichiarazione di metodo, senz’alto si può leggere come un avviso ai naviganti.

Nel centrodestra, abbandonato a se stesso il buon Battistini, i due principali partiti sembrano soprattutto impegnati in un derby per la leadership interna, con Fratelli d’Italia (a Bologna guidata dal deputato Galeazzo Bignami, il cui invito alla festa dell’Unità è stato ritirato da Letta in persona perché sono tornate a circolare delle foto del suo addio al celibato in cui era vestito da nazista) che ha l’unico obiettivo di superare la Lega.

Lo scontro fra Fdi e Lega è feroce e senza esclusione di colpi, con un paio di storie molto laterali, ma che lo raccontano bene. Come il caso di Umberto Bosco, consigliere comunale, leghista atipico, che è stato fatto fuori il giorno prima della presentazioni delle liste perché aveva osato criticare, in nome di uno spirito antifascista, la presenza nella lista della Lega di esponenti di estrema destra. Il giorno dopo Bosco si è candidato con Fratelli d’Italia. O come  quello di Elena Foresti, una delle 4 elette dal Movimento 5 Stelle cinque anni fa, anche lei in lista con il partito della Meloni. O come il caso dei consigli di Quartiere dove Lega e Fratelli d’Italia si sono presentate separate, azzerando (visto il sistema di voto maggioritario a turno unico) ogni purché minima chance di vittoria, ma assicurandosi la possibilità di poter misurare le proprie forze sul territorio.

Non solo per completezza d’informazione, è interessante conoscere anche gli altri sei candidati: Stefano Sermenghi è l’ex sindaco di Castenaso, dal Pd è passato al centrodestra, ora guida una lista sostenuta dall’ex M5s epurato Giovanni Favia e l’ex candidato sindaco della Lega Manes Bernardini (fatto fuori da Salvini) ed è sostenuto da Italexit di Paragone. Poi ci sono Luca Labanti (Movimento 24 agosto per l’equità territoriale, primo esempio di una lista meridionalista che si candida alla guida di una città del nord) e Andrea Tosatto, del Movimento 3V, lista che ha come unico obiettivo quello di opporsi ai vaccini, già presente anche alle regionali, in epoca pre Covid.

Tutto quello che c’è a sinistra della vastissima coalizione di Lepore è addirittura diviso in tre: Marta Collot di Potere al Popolo, Federico Bacchiocchi del Partito comunista dei lavoratori (le correnti trotzkiste dissidenti di Rifondazione) e Dora Palumbo per Sinistra Unita. Dora Palumbo è una dei quattro consiglieri eletti cinque anni fa dal Movimento 5 Stelle: una è con Fratelli d’Italia, gli due sono al fianco di Lepore, l’altra guida i reduci di Rifondazione Comunista.

C’è almeno una cosa su cui il sindaco uscente Virginio Merola ha ragione. La storia dirà se sia stato o meno un “sindaco normale”. Ma che Bologna sia una città speciale, beh, ci sono davvero pochi dubbi.

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