Agrigento

Being here: Andrea Camilleri ci sarà per sempre

18 Luglio 2019

Aveva detto che l’eutanasia era una giusta soluzione per affrontare la fine della vita.

“La morte non mi fa paura. Ma dopo non c’è niente. E niente di me resterà: sarò dimenticato, come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi».

Oggi avrebbe detto…mi avete rotto i cabasisi!!

Camilleri raccontava anche tante fantasie, facevano ormai parte dei suoi ricordi, diceva di essere stato tra i giovani siciliani che avevano seppellito Pirandello, morto nel 1936, quando lui aveva undici anni.

Una vocazione tardiva quella dello scrittore, dopo una vita da insegnante al centro sperimentale, regista Rai, produttore delle serie di Maigret e Sheridan.

Poi un giorno Camilleri suggerì a Sciascia di scrivere un saggio su un eccidio oscuro di cui è rimasta traccia nelle leggende locali: 114 uomini uccisi alla stessa ora, nello stesso luogo e nello stesso modo. Lo scrittore gli rispose che la storia gli piaceva, ma avrebbe dovuto scriverla lui. Nacque così «La strage dimenticata». Il primo di una serie di successi.

I politici di oggi non amavano Camilleri e lui ricambiava.

A turno tutti sono stati beccati. Berlusconi, D’Alema, nemmeno Renzi era sfuggito, e alla vigilia del referendum disse al Corriere che si sarebbe fatto portare a braccia – lui cieco – al seggio pur di votare No. Non era tenero neppure con i Cinque Stelle: «Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti».

Figuriamoci Salvini: «Mi fa vomitare».

Cosa scrivere ancora, penso che sia più giusto continuare solo a leggerlo.

In questo passo finale di Being here… contenuto in “Un mese con Montalbano” (Milano, Mondadori, 1999) lo scrittore desrive, secondo me, il suo destino di inappartenenza e di sofferenza, fino al precipitare degli eventi, dovuto alla consapevolezza ormai piena, che le vicende dell’individuo non seguono altro che gli scherzi del caso.

«Tanto più che io sono, anzi ero, vigatese.» disse Charles Zuck.

«Ah, quindi lei è nato qua» si stupì, ma poi non tanto, Montalbano. Stimando a occhio e croce, l’omo doveva essere nato verso gli anni Venti, quando il porto andava della bella e gli stranieri a Vigàta s’accattavano a due un soldo.

«Sì.»

Charles Zuck fece una pausa, l’ariata malinconica parse condensarsi, farsi più spessa, le pupille gli si misero a saltare da una parete all’altra della càmmara.

«E qui sono morto»

«Perché dice d’essere morto?»

«Non sono io a dirlo. Così c’è scritto.»

«Dove?»

«Sul monumento ai caduti.»

Montalbano si sforzò la memoria.

«Non ricordo d’aver letto il suo nome» concluse.

«E infatti Charles Zuck non c’è. C’è invece Carlo Zuccotti, che sono sempre io.»

«Che corso ha frequentato?» spiò a questo punto Montalbano. Quello che l’omo gli stava contando non gli bastava, voleva capirlo di più.

«Lettere moderne. Ho studiato con Giuseppe De Robertis, la tesi era su Le Grazie di Foscolo.»

“Tanto di cappello” pinsò il commissario ch’era un patito di letteratura.

Intanto era scoppiata la guerra. Richiamato alle armi, Carlo fu mandato a combattere in Africa settentrionale. Dopo sei mesi ch’era al fronte, una lettera del compartimento ferroviario di Firenze l’informò che suo padre era morto in seguito a un mitragliamento. Ora era veramente solo al mondo, dei parenti dei genitori non sapeva manco il nome. Fatto prigioniero dagli americani, venne mandato in un campo di concentramento del Texas. Sapeva l’inglese bene e questo l’aiutò molto, tanto da farlo diventare una specie d’interprete. Fu così che conobbe Evelyn, la figlia del responsabile amministrativo del campo. Rimesso in libertà dopo la fine della guerra, si era sposato con Evelyn. Nel ’47 da Firenze gli spedirono, su sua richiesta, l’attestato di laurea. Non serviva per gli Stati Uniti, ma lui ripigliò a studiare fino ad essere abilitato all’insegnamento. Ottenne la cittadinanza americana, cangiò il nome da Zuccotti in Zuck, come già gli americani lo chiamavano sbrigativamente.

«Perché è voluto tornare qui?»

«Questa è la risposta più difficile» fece il vecchio.

Parse per un attimo che si fosse perso nel labirinto dei suoi ricordi. Il commissario restò muto, in attesa.

«La vita dei vecchi come me, commissario, a un certo momento consiste in un elenco: quello dei morti. Che a poco a poco diventano tanti che ti pare di essere rimasto solo in un deserto. Allora cerchi disperatamente di orientarti, ma non sempre ti riesce.»

«La signora Evelyn non è più con lei?»

«Avevamo avuto un figlio, James. Uno solo. Si vede che la mia è una famiglia di figli unici. E’ caduto nel Vietnam. Da allora mia moglie non si è più ripresa. Ed è andata a ritrovare nostro figlio otto anni fa.»

Ancora una volta Montalbano non raprì bocca.

A questo punto il vecchio professore sorrise. Un sorriso tale che a Montalbano sembrò che il cielo si fosse scurato e che una mano a pugno gli avesse agguantato il cuore.

«Che brutta storia, commissario. Brutta letterariamente intendo, a metà strada tra il drammone alla Giacometti, quello della morte civile, e certe situazioni pirandelliane. Perché son voluto venire qua, dice? Sono venuto d’impulso. Qua, a conti fatti, ho passato il meglio della mia esistenza, il meglio, sì, e solo perché non avevo ancora la cognizione del dolore. Non è poco, sa? Nella mia solitudine di Chicago, Vigàta ha cominciato a brillare come una stella. Ma già appena messo piede in paese, l’illusione è svanita. Era un miraggio. Dei vecchi compagni di scuola non ne ho trovato uno, nemmeno la casa dove ho abitato esiste più, ora c’è un palazzone di dieci piani. E le tre stazioni si sono ridotte a una sola con poco o niente traffico. Poi ho scoperto che figuravo nella lapide dei caduti. Sono andato all’anagrafe. C’è stato evidentemente un errore da parte del comando militare. Mi hanno dato per morto.»

«Mi scusi la domanda, ma lei, a leggere il suo nome, che ha provato?» disse Montalbano.

Il vecchio ci pensò sopra tanticchia.

«Rimpianto» disse poi a bassa voce.

«Di che?»

«Che le cose non siano andate come c’è scritto sulla lapide. Invece ho dovuto vivere.»

«Senta professore, certamente entro domani le procurerò un incontro col sindaco. Dove abita?»

….

Being here, pronunciò dall’altro capo del telefono Charles Zuck: dato che ci sono.

Montalbano si susì di scatto dalla seggia, in corridoio si trovò davanti Catarella, lo spintonò con violenza, corse in macchina, i due chilometri che separavano Vigàta dall’hotel gli parsero un centinaro, irruppe nella hall.

«Il professor Zuccotti?»

«Non c’è nessun Zuccotti.»

«Charles Zuck, stronzo.»

«115, primo piano» balbettò il portiere strammato.

L’ascensore era occupato, si fece i gradini due e due. Arrivò col fiatone, tuppiò.

«Professore? Apra! Il commissario Montalbano sono.»

«Un attimo» rispose la voce tranquilla del vecchio.

Poi, all’interno, violento, fortissimo, risuonò uno sparo.

E Salvo Montalbano seppe che il sindaco di Vigàta non avrebbe dovuto affrontare la spesa di rifare la lapide.

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