IO STO CON LA SPOSA. UN VIAGGIO. Piccola recensione autobiografica
Ho viaggiato in una blablacar guidata da Alì, un ragazzo albanese musulmano. Andavo a Firenze, dove ho dormito in air b’n’b da un ragazzo tunisino, anche lui musulmano, Elias.
Alì ha la mia età, 26 anni e da tredici vive in Italia. E’ venuto con la sua famiglia, che adesso in parte è tornata in Albania. Lui si sente italiano, e vede qui la sua vita futura con al sua ragazza, ha avviato le pratiche per la cittadinanza ma aspetta da otto anni senza risultati. Elias ha i genitori arabi ma è nato in Francia, quindi è francese e il suo accento parigino lo conferma. E’ credente e praticante: non ha voluto bere il pinacolada che la bartender del locale cubano di Santa Maria Novella ci ha offerto appena siamo arrivati, perché lui non beve alcol “se non per sentirsi integrato nelle occasioni di lavoro” e con enormi difficoltà “di coscienza”. Alì ha mangiato un panino col prosciutto quando ci siamo fermati all’autogrill lungo il viaggio di ritorno: lui dice che il maiale è cibo come il resto, e che lui la fede la interpreta diversamente. Quando sua nipote di 14 anni, la ragazza a cui fa da padre da qualche anno, gli ha chiesto di farsi battezzare lui non ha fatto una piega: è lei che deve scegliere, è la sua vita. E in fondo siamo sotto lo stesso cielo. Tutti, soprattutto chi crede “in qualcosa”. Così mi ha spiegato.
Tre ragazzi, stessa età, stessa velocità: quella generazione che ha deciso di non volere intermediazioni, che viaggia condividendo un’automobile e un pezzo del racconto di una vita, che piuttosto che andare in albergo prende in affitto una camera da uno sconosciuto, per scoprire che la Tunisia e la Calabria (la mia regione d’origine) hanno mentalità (purtroppo o per fortuna) molto simili.
Subito ci siamo raccontati le nostre identità: io cattolica, io musulmano, io la penso così su questo, io in questa cosa non ci credo. E subito ci siamo sentiti simili.
Solo che Elias per vivere e lavorare a Firenze non ha dovuto nemmeno portarsi il passaporto dalla Francia. Ali per prenotare un volo Ryanair per Parigi ha bisogno di un visto speciale.
Durante il viaggio continuavano a ronzarmi in testa queste parole: “Il cielo è di tutti. No alle frontiere“. Le avevo sentite pronunciare a Tasneem, la bellissima protagonista di Io sto con la sposa, che ero andata a vedere qualche giorno prima in un cinemino d’essai di Perugia. Ne avevo letto su Facebook e su Yalla Italia, e lo avevo seguito alla sua presentazione alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia quest’anno.
Tasneem è “la sposa”, quella della messinscena, quella che con un abito bianco, per non farsi fermare dalla polizia attraversa l’Europa da Lampedusa fino in Svezia.
Perché un finto matrimonio?
“Chi potrebbe mai interrompere un corteo nuziale?”: questa è l’idea che porta un poeta palestinese e un giornalista italiano ad aiutare cinque profughi siriani e palestinesi a proseguire il loro viaggio clandestino verso il nord Europa. Per evitare di essere arrestati come contrabbandieri inscenano un finto matrimonio coinvolgendo la ragazza che traveste da sposa, e una decina di amici italiani e siriani che si mascherano da invitati. Così attraverseranno mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e tremila chilometri. La storia è realmente accaduta e la strada è quella vera che hanno percorso da Milano a Stoccolma tra il 14 e il 18 novembre 2013.
L’abito di Tasneem si impiglia nel filo spinato che divide l’Italia dalla Francia, all’altezza di uno dei valichi aperti dai partigiani per la Liberazione. Anche Tasneem è fuggita dalla guerra, ha dovuto abbandonare il suo paese.
Ha dovuto, perché non avrebbe voluto farlo: “I ragazzi non combattono per delle case vuote”. I loro partigiani, quelli che stanno cercando di liberare ora la loro di terra, hanno bisogno anche delle donne e di una motivazione per farlo. E se vai via non riesci a perdonartelo facilmente. Così racconta Tasneem con gli occhi bagnati, ripresa in una delle tante inquadrature strette nell’abitacolo di quell’auto che diventa protagonista anche lei di viaggio della speranza.
A Bochum, in Germania, una delle scene più corali del film: il ricongiungimento con altre famiglie di ex profughi: nel cuore di un’Europa transnazionale e ironica che riesce a sorpassare con la forza della solidarietà le leggi e i controlli.
Ancora tensione alle frontiere con il Lussemburgo e ancora spezzoni di storie tragiche, raccontate dal patriarca, il più anziano, che sta cercando di raggiungere la Scandinavia per aprirsi un negozio: il barcone fino a Lampedusa, lo scampato pericolo sono i motivi della sua rabbia.
“Mi tirarono su altrimenti sarebbe stata la storia di un’altra tragedia”: con lo sforzo di chi si è aggrappato fisicamente alla vita per lunghissimi minuti con la sola motivazione di continuare a prendersi cura del proprio figlio. La tragedia scampata è quella del padre di Manar: un ragazzino di undici anni “che in mare ha sopportato veramente di tutto e che rappa in arabo con la maestria di un rapper nero americano. Sulle sue note scanzonate, che raccontano storie dolorose danzano alla fine del film i protagonisti nella piazza della stazione di Stoccolma, dopo aver attraversato l’ultimo ponte: quello che collega la Danimarca alla Svezia ed essere arrivati a destinazione.
Soggetto e sceneggiatura sono di Gabriele Del Grande, documentarista. La curatissima fotografia diretta da Gianni Bonardi rende merito ad una storia vera e veritiera, che ha solo bisogno di raccontarsi senza troppi interventi.
Dal dolore di Tasneem alla tranquilla rassegnazione di Abdallah, il palestinese che rischia la sua cittadinanza italiana presa da appena qualche giorno pur di aiutare questi “fratelli”, dalla speranza dei due anziani protagonisti, vestiti di tutto punto con gli unici abiti rimasti dopo le mille fughe, alla freschezza già opacizzata del giovane Manar: questo documentario non è solo un film, è diventato, a ragione, un vero e proprio fenomeno.
Uno di quelli che entrano nel linguaggio comune, di quelli che per ricordare le battaglie sui diritti civili e sullo ius soli basterà dire – e forse già basta – che “stiamo con la sposa”. Ed è subito manifestazione in piazza o nuova pagina Facebook. Anche perché questo film, come blablacar ed air b’n’b, è stato fatto senza corpi intermedi, con un crowdfunding da 75 mila euro.
Ma voglio tornare alle parole di Abdallah, all’inizio della pellicola, quando gli si chiede perché fa tutto questo rischiando di giocarsi la cittadinanza italiana appena conquistata dopo anni di pena, e lui risponde: “Per la prima volta avrò uno Stato alle spalle ma so anche che lo Stato italiano non si curerà di me. Noi profughi ci sentiamo per il diritto internazionale come apolidi”.
Abdullah nel film ha quasi 50 anni e la sua rassegnazione riesce a trasformarla in operatività e solidarietà per i fratelli che sono nella sua stessa condizione di qualche anno fa.
Io spero di non vedere mai rassegnazione negli occhi del mio amico Alì, lui che è albanese e il suo Islam è così vicino alla mentalità laica occidentale. Lui che non riesce a capire che cosa significhi questo dannatissimo scontro di civiltà. Lui che non vuole andare ogni volta in consolato per chiedere il permesso di andare a farsi un weekend a Londra con la sua fidanzata…ecco io nei suoi occhi la rassegnazione non voglio vederla. E penso che otto anni per ottenere questa cittadinanza di uno Stato che poi non sai nemmeno se si curerà di te siano davvero uno sproposito.
Io sto con la sposa e chiedo lo ius soli ora. E credo che “se devi vivere, vivi libero altrimenti muori come gli alberi immobili”. Altre belle poetiche parole della bella e profonda Tasneem. Io sono con lei.
Nessun commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.