Il testamento di Francis

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19 Ottobre 2024

Ieri sono andato a vedere il tanto discusso e insultato Megalopolis, ultima fatica autoprodotta da Francis Ford Coppola. Ci sono andato perché sono sospettoso delle stroncature globali di un grande regista alla fine della sua carriera, dopo che ci ha proposto opere visionarie e dense di significati nel corso della sua produzione.

Avevo letto di deliri masturbatori di un vecchio, di due ore e passa di kitsch, di una specie di Gotham City riuscita a metà o un Marvel venuto male e così via.

Chi l’ha recensito deve aver visto un altro film oppure l’ha visto mangiando rumorosamente dei pop corn perché non ha colto proprio niente di ciò che Coppola vuol dirci attraverso le immagini e i dialoghi di questo colossal vecchio stile.

Fin dall’inizio questo film, e poi la sensazione si sviluppa durante la proiezione, mi è apparso come una summa di una vita di cinema, letture, teatro, visioni, aggiunti all’acuta osservazione della realtà contemporanea, colle sue idiosincrasie e le sue distrazioni, i suoi complotti e i suoi consumi, i suoi vizi. E i suoi pagliacci.

C’è la vita di una persona di ottantacinque anni di cui sessantatré di carriera cinematografica, che per produrre quest’ultima sua opera è ricorso ai propri risparmi, perché nessun produttore la voleva produrre, probabilmente non capendo nulla di ciò che sarebbe stato questo film o capendo fin troppo. Perché questo film, oltre a essere un capolavoro della distopia, racchiudendole tutte, è un chiaro messaggio alla politica globale contemporanea, che ripercorre gli stessi sentieri della politica del remoto Impero Romano in disfacimento, facendo pensare, a chi ha il cervello e la cultura per comprendere tra le righe, come bisogna svegliarsi dal torpore.

Sì, non è un film per tutti, perché gli ingredienti di Coppola non sono facili da mettere insieme. Eppure, il pubblico è avvertito fin dai titoli di testa, perché Megalopolis (e non Metropolis, come più volte ha ripetuto l’ormai cotta Mara Venier nel suo stucchevole salottino domenicale, poverina), viene annunciato come “Una favola di Francis Ford Coppola”. E come una favola si svolge, a cominciare dalle prime immagini, dove il protagonista principale ferma il tempo dalla guglia del Chrysler, nel trionfo del déco di New York e del suo cinema anni trenta-quaranta, dove sembra ambientata esteticamente la sua distopia pseudofuturista.

Una favola alla fine della propria vita, un omaggio al cinema di tutti, dalle origini, perché le citazioni non si contano e forse è impossibile coglierle tutte.

Ma è anche una visione della caduta dell’impero americano simile alla decadenza dell’Impero Romano, coi suoi complotti, i suoi tirannicidi, i suoi avventurieri. E non è un caso che New Rome, come capitale distopica, corrisponda a New York, perché la capitale reale dell’impero americano, Washington, fu fondata su un modello ideale dell’antica Roma, c’è un Campidoglio anche lì, Capitol Hill, ed è il trionfo del neoclassico architettonico. C’è anche questo e molto di più.

È inutile descrivere la trama perché l’hanno fatto tutti i recensori e si può desumere dagli interventi riscontrabili in ogni pagina della rete che parli di questa pellicola.

Ciò che in molte di esse non vi si troverà sono le connessioni tra i personaggi, le citazioni letterarie, storiche, cinematografiche, teatrali, dispiegate in ogni singolo fotogramma. Ogni dettaglio, ogni inquadratura, ci parla della vita di Coppola, a cui va solamente detto “chapeau!”.

Immaginiamo letture che comprendano, a parte gli ovvi riferimenti ai classici latini, anche filtrati attraverso Shakespeare, filosofi, scrittori e politici come Dante e il suo inferno, Hobbes, Bacon, Campanella, Voltaire, Goethe, Marx, Nietzsche, Göbbels, Freud, Pirandello, e tanti altri inframezzati da visioni alla Blake, Piranesi, Leonardo, Vitruvio, Palladio, Wright e Le Corbusier, e poi Griffith, Lang, Capra, De Mille, Wyler, Mankievicz, Scott, Lucas, Visconti, Fellini, Kubrick, solo per citarne alcuni, ma anche l’universo dei serial tv stile Dallas e Dinasty o quello di James Bond, o Batman, o Duckburg (Paperopoli) e Mousetown (Topolinia), e i musical di Broadway, eccetera, frullati insieme, parodiati e ricomposti con sapienza per comunicarci ciò che è il nostro mondo contemporaneo, dove tutto si frulla ma non si ricompone, dove tutto, nell’epoca della comunicazione tecnologica globale che dovrebbe facilitarci la vita, invece ce la complica inutilmente colla finzione fine a sé stessa, ingannandoci e illudendoci. E la manipolazione delle immagini scandalistiche che travolgono il protagonista di Megalopolis è esattamente ciò che oggi accade colle manipolazioni dell’IA, che mostrano ciò che non esiste come se esistesse.

A ottantacinque anni si è vista e vissuta la Storia (il 7 aprile 1939 nasce Coppola e il 1° Settembre il Reich invade la Polonia, colle conseguenze che tutti sanno) e si può mostrare il proprio punto di vista, à sa manière.

L’architetto visionario che vorrebbe migliorare la vita del mondo, parodiando il Grande Architetto della Massoneria che tutto vede e tutto regola (e a cui si deve devozione senza se e senza ma e ricordiamo come Washington sia una capitale massonica, a cui non si deve disobbedire mai) o un Faust che sogna la sua città ideale, somiglia vagamente a un Tony Stark – Iron Man, che però ha il superpotere di fermare il tempo (cosa che c’è anche in Matrix) e una profondità di visione che manca, a questi livelli, ai fumetti Marvel. È anche una caricatura di tutto ciò, pur essendo una favola. È, infatti, una favola consapevole, al contrario di quei prodotti per gli adolescenti che tanto piacciono agli adulti adolescenti di oggi, che mette questi ultimi allo specchio, pretendendo, forse, di renderli coscienti del loro infantilismo.

E, come il Faust di Goethe, Megalopolis è un’opera aperta ma chiusa in sé stessa allo stesso tempo, perché racchiude tutto e lo rilancia allo spettatore, se capace di comprendere tutta la rete di legami tra i personaggi antichi, rapportandoli coi moderni, quelli con cui abbiamo a che fare quotidianamente.

Cesar Catilina (Adam Driver) non è solo il contraltare di Franklin Cicerone (Giancarlo Esposito), sindaco della New Rome, capitale dell’Impero degli Stati Uniti trasfigurati. È Coppola stesso, è lui il creatore di sogni ben più lunghi di un giorno, che riassume tutto e lo ripropone con nuovi significati che si integrano perfettamente colla follia in cui viviamo attualmente.

Il senso di colpa che Cesar Catilina prova nei confronti dell’amata moglie defunta, della cui morte si sente responsabile, viene redento dall’unione con Giulia (Nathalie Emmanuel), la ribelle figlia di Cicerone, con cui fa una figlia, che rappresenta, in apparenza banalmente, il futuro. Una sorta di Cristianesimo riveduto e corretto.

E non può che avere il lieto fine, naturalmente, come nei film di Frank Capra, dove l’ottimismo americano trionfa sempre su qualsiasi espressione del male perché i nemici, indispensabili per l’identità degli Stati Uniti, saranno sempre abbattuti. Ma questo lieto fine è in realtà uno sberleffo a tutti, ma proprio tutti, soprattutto al ricchissimo e visionario Elon Musk, da molti celebrato come il nuovo benefattore dell’umanità (e in certi momenti parodiato nel film dai balletti inconsulti di Cesar Catilina in pubblico, che si droga e beve come lui), che è in realtà il più grande illusionista nelle cui ragnatele tutti possiamo cadere. Non è un caso che Musk sia supporter di uno dei più grandi bugiardi della Storia, Donald Trump, oltre che amichetto della bugiardona Meloni, le cui vicende sono legate a pasticci dove politica, finanza e tecnologia s’intrecciano e dove Musk, Sogei, Stroppa lavorano sporco assai, come sta venendo fuori in questi giorni.

Il paragone con Musk è d’obbligo perché sia Catilina che Musk vogliono costruire il loro mondo ideale, solo che Musk vuole costruirlo su Marte e nella realtà (quella nella sua testa, almeno), povero caro. Degno di una casa di cura e più prossimo all’orrendo personaggio di Clodio, mistificatore e manipolatore di tutte le realtà pro domo sua, il quale, poi, nel film, finisce appeso a testa in giù come Mussolini, da non dimenticare mai, come invece si preferirebbe fare dalle parti del nostro governo di destrissima.

Il mondo espresso da Coppola in Megalopolis è questo e molto, molto di più, anche perché è pervaso dall’arma più potente di tutte, l’ironia. Non ci sarebbe abbastanza spazio per cogliere tutte le sfumature parodistiche e i molteplici piani di lettura della sua ultima opera. Si può solamente andare a vedere il film e rassegnarsi a comprenderlo in parte o non comprenderlo affatto, soprattutto se non si hanno i ferri del mestiere, ossia l’istruzione. Perché, per cogliere le migliaia di richiami, citazioni, dettagli, costumi, immagini, come per esempio quando Cicerone dice di sé si chiamarsi Frank, come Frank Sinatra, e non Franklin, come Benjamin Franklin, padre fondatore degli ormai obsoleti Stati Uniti, scienziato e massone (quando la Massoneria era un’altra cosa…), e citato anche visivamente sulle banconote, o come per le tre ragazze vestite con abiti tricolore tardo Settecento nei tre colori della bandiera rivoluzionaria, gli stessi della Francia, dell’Inghilterra e degli U.S.A., ci vuole una capacità non comune di mettere insieme gli indizi che Coppola ci propone uno dopo l’altro.

Anche la caduta in pezzi sulla Terra, e precisamente nel centro di New Rome, dell’obsoleta nave spaziale sovietica, ormai tutta rotta e fuori rotta, incontrollabile, è usata come simbolo del disfacimento di un impero che cade su un altro impero al tramonto, causato anche dalla dissoluzione del secondo polo di potere mondiale dell’epoca. Tutti noi, quelli di una certa età, abbiamo visto il crollo del muro di Berlino e le sue conseguenze. C’è anche questo in Megalopolis.

Tutto è pensato e ha un senso profondo all’interno della sua favola, come in ogni favola che si rispetti.

Le stroncature come film inutilmente cervellotico e kitsch che ha ricevuto sono sicuramente dettate da ignoranza e invidia, perché Coppola ha fatto tutto da solo, vendendo le sue vigne preziose, dando fondo ai suoi risparmi per lasciare un testamento che valesse la pena, da immenso cineasta. Probabilmente dovrà passare del tempo perché il film venga capito veramente, come per molti capolavori del passato.

D’altro canto, Coppola conclude il suo film con l’ennesima citazione da Shakespeare, La Tempesta: siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Ma il viatico finale è la citazione dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo a caratteri lapidari scolpiti nel marmo come didascalia, ultime immagini del film, dichiarazione assai disattesa dagli USA, dove fino alla fine degli anni Sessanta del XX secolo esisteva l’apartheid. Uno sputo in faccia all’ipocrisia.

Non dev’essere un caso che la serie tv Kaos, dove pure vien fatta una commistione di antico e moderno, attualizzando in chiave kitsch e parodistica la mitologia greca, ma in maniera intelligente e critica, pur assai distante da Megalopolis, sia considerata un flop, dal punto di vista della cassetta, perché ormai sono solamente i soldi a determinare il valore di un’opera: stesso destino per due opere affini. La gente non deve pensare troppo.

Per restare nella nostra provincia periferica, sarebbe come se il valore di un’opera come Il Cavaliere inesistente di Calvino fosse eclissato dal Mondo al contrario di Vannacci, solo perché quest’ultimo ha venduto centinaia di migliaia di copie in pochissimo tempo. Non sono i soldi a determinare il valore di un’opera, ma ciò che c’è dentro: il tutt’altro che inesistente cavaliere di Calvino e ben più reale di quel mondo sottosopra di Vannacci, pover’uomo.

 

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CAT: Cinema

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