Cinema
Emily In Paris
“Emily in Paris parla di americani idioti e francesi stronzi. Bello”. Il commento ironico che scorrendo le news feed mi ha strappato un sorriso, ha aggiunto perplessità ulteriori alla possibile visione della nuova serie Netflix uscita lo scorso due ottobre, insieme al fatto che Lily Collins sia per me l’esempio di come essere figlie d’arte possa spalancare delle porte altrimenti inaccessibili.
Nessuno dica a papà Phil che la sua bambina non è bella, nè simpatica e neanche talentuosa e lasciamola destreggiarsi tra cinema e moda come se fosse il volto di cui tutti avevamo bisogno…
D’altro canto, però c’è la mia imperitura riconoscenza e il mio affetto verso Darren Star, autore e produttore di Beverly Hills 90210, Melrose Place e Sex And The City, roba che anche gli spettatori più esigenti non hanno mai criticato fino in fondo. Si tratta infatti di serie che sono piaciute indistintamente a tutti all’epoca in cui sono uscite e sono invecchiate benissimo. Esattamente trent’anni fa oggi andava in onda la prima puntata sui liceali della West Coast e Carrie Bradshaw non è mai stata così attuale, segno inequivocabile di un prodotto di qualità.
Allora, se proprio vogliamo semplificare, dopo la visione di queste dieci puntate che offrono qualche ora di piacevole distrazione, certo si tratta di una infarcitura di ovvietà, che rimanda tantissimo alla pellicola Il Diavolo Veste Prada senza essere altrettanto graffiante nè magnificamente recitata.
Sicuramente Meryl-Miranda-Streep l’avrebbe liquidata con un uno dei suoi commenti più memorabili:
Floral, For Spring? Groundbreaking
D’altro canto, però, risulta anche terribilmente realistica.
La Emily che da Chicago approda a Parigi per lavorare nell’agenzia di comunicazione che la sua azienda ha acquisito, è la classica Americana ignorante e sempre piena di un entusiasmo ingiustificato: una ringarde, come viene definita con tono sprezzante nell’episodio sei. E’ tutto un “fabulous ” e un “Oh My God”, misto di cafoneria ed arroganza mentre solca le strade di Parigi con la sua voce sempre di due toni troppo alti, senza sapere parlare francese, postando su Instagram un pain au chocolat per colazione come se fosse una cosa straordinaria…
E gli occhi di noi spettatori sono gli stessi sconcertati della sua capa, dei suoi colleghi o degli amici/amanti in cui si imbatte che non sono realmente attratti nè tantomeno affascinati, ma finiscono per provare simpatia per quell’oggetto innoquo, costantemente orientato al lavoro, che è convinto di vestirsi con gusto soltanto perchè abbina le scarpe (quasi tutte Loubutin) al cappello e ai charms penzolanti sull’ennesima borsa griffata.
Il dictat less is more ha attraversato l’Oceano, ma è riuscito ad approdare soltanto a New York e la Vecchia Europa si è tenuta stretta l’eleganza innata ma anche il disincanto e quel tocco di cinismo per cui riesce a derubricare a “cose da turisti” Il Lago dei Cigni all’Opéra…
Per tutto quello che manca, arriva in soccorso Parigi, che ha la capacità di elevare il contenuto scarso anche quando sembra che venga pubblicizzata come si trattasse di una versione streaming della Lonely Planet: dal Marais al Canal Saint Martin, fino alla vista dal Pont Alexandre III, dal ristorante Ralph’s al Caviar Kaspia, passando per il Cafè De Fleur e i Deux Magots, possiamo anche perdonare queste lezioncine di places to be e dare ragione ancora una volta a Woody Allen
Che Parigi esista e qualcuno scelga di vivere in un altro posto nel mondo sarà sempre un mistero per me.
Infine molti di voi penseranno che trovarsi come inquilino del quarto piano, parafrasando Polanski, un ragazzo perfetto come Lucas Bravo sia qualcosa che può accadere soltanto in una serie americana…Vi assicuro invece che all’ombra della Tour Eiffel è assolutamente normale…
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