Ecco perché Interstellar non è tutto da buttare
Uscito dalla sala ho preso il mio taccuino e mi sono messo a scrivere di getto. Avvenimento inaspettato, dati i pregiudizi che mi accompagnavano appena varcata la soglia del cinema di Giacarta che proiettava “Interstellar”, l’ultima, ambiziosa fatica di Christopher Nolan, un film che per ora sembra aver attirato più critiche che elogi. Ecco perché mi sono stupito mentre scrivevo, io che di solito accolgo con un certo scetticismo le ultime apparizioni hollywoodiane, pellicole che ritengo ormai generalmente votate all’entertainment fine a sé stesso, ad un’esagerazione tanto estrema quanto sguaiata e vuota di contenuti. Eppure, sebbene “Interstellar” non sia neppure lontanamente paragonabile a “2001: Odissea nello Spazio” o a “Blade Runner”, e nonostante abbia lasciato l’amaro in bocca a molti per la sua applicazione un po’ arbitraria delle leggi fisiche (qui una serie di TED Talks per chi non ci avesse capito niente) e per una caratterizzazione dei personaggi un po’ tirata via, almeno tre sono i messaggi preziosi trasmessi dalla pellicola, messaggi sui quali ci spinge quanto meno a riflettere.
Innanzitutto, “Interstellar” riesce a comunicare in modo immediato e carico di pathos le possibili conseguenze devastanti legate al cambiamento climatico, tra cui, in particolare, l’insicurezza alimentare. Il Global Warming è, se vogliamo, la condicio sine qua non dell’intera storia, la raison d’être dei viaggi interstellari, e la forma abietta in cui si manifesta, quel polverone che acceca e soffoca, quella non ben specificata “piaga” che sta pian piano portando l’umanità all’estinzione, dovrebbe quanto meno spingere i singoli a riflettere sull’entità dei mali che (consapevolmente o meno) stanno contribuendo a causare. Certo, non è la prima volta che il leitmotiv della catastrofe planetaria viene associato al cambiamento climatico, ma nel film si dice chiaro e tondo che la famosa “piaga” è conseguenza degli eccessi degli uomini del ventesimo secolo, e se sarebbe molto ingenuo aspettarsi che gli spettatori corrano a casa a misurare la propria impronta ambientale e inizino fin da domani a modificare le proprie abitudini quotidiane in chiave più sostenibile, un mezzo immediato come il cinema certo aiuta a incrementare quella “consapevolezza” con cui i policymakers di tutto il mondo si sciacquano la bocca da una ventina d’anni.
In secondo luogo, “Interstellar” dimostra come sia sovente l’istintività a portare l’uomo a compiere le imprese più grandi, così come le più infime bassezze. Di fronte alla necessità si perde gran parte del protocollo e dell’etichetta che pervadono l’imbalsamata, iper-burocratizzata società attuale, e emerge invece l’impulso all’auto-conservazione, si accresce la propensione al rischio, le emozioni assumono tinte più forti, ed anche la speranza più flebile ha ragione d’esistere e di essere alimentata. Questo vuol dire uscire dalla propria comfort zone (termine tanto abusato quanto vacuo), ed una scossa del genere è tanto più importante in un momento di crisi, come l’attuale, che viene affrontato con una mentalità a mio avviso ancora anacronistica ed inadeguata, per cui, specie in Italia, pare di essere sempre un passo indietro rispetto agli avvenimenti che si verificano. Un messaggio importante, se vogliamo, in un mondo anestetizzato dal conformismo, dall’eccessivo controllo (auto- o etero-imposto) e dall’iper-pianificazione, che lasciano poco spazio alla spontaneità e al più genuino dispiegarsi delle inclinazioni umane.
Terzo, il film introduce senza esplorarlo appieno il tratto della solitudine. Una solitudine assoluta, abissale, come quella di Anne Hathaway che si trova da sola a dover colonizzare un mondo completamente desertico. O quella di McConaughey imprigionato in un cubo a quattro dimensioni (pare si chiami tesseratto), un luogo di confino, di prigionia, di un isolamento talmente inconcepibile da portare indirettamente a riflettere sulla solitudine dell’uomo contemporaneo. Una solitudine meno aliena di quella descritta da Nolan, ma per questo anche più subdola: la solitudine degli smartphone e dei social network (guarda il video sotto), che paradossalmente associano il mito della connettività ad una comunicazione sempre piu’ indiretta ed amputata, e che producono una forma tutta nuova di dipendenza. O l’insicurezza, la fragilità di chi si trova sballottato in un mondo improvvisamente troppo grande, in cui l’iper-specializzazione va a braccetto con la performatività, e delle qualità, del valore dell’essere umano spesso ci si dimentica in tronco, in un’aridità d’empatia e di valori che non si discosta troppo da quella del pianeta di Interstellar.
Basta, su questo film è già stato speso abbastanza inchiostro, non voglio continuare. Quanto ho scritto è molto soggettivo, e tradisce le mie impressioni a caldo: mi si perdoni se queste righe comprendono salti logici non inferiori ai paradossi ontologici del film. Ma forse è proprio per questo che val la pena andare a vedere “Interstellar”: è un film che, pur senza essere un capolavoro, riesce a dischiudere un ampio ventaglio di riflessioni. Il che, per un blockbuster hollywoodiano del 2014, non è proprio poco.
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