Ciclismo
Tullio Campagnolo e la leggenda del Croce d’Aune
Tullio Campagnolo nasce il 26 agosto 1901, in una casa alla periferia est di Vicenza, tra Ospitaletto e Anconetta. Quando vanno all’anagrafe a registrare la nascita del loro secondogenito, Valentino Campagnolo e sua moglie, Elisa Paiusco, si trovano di fronte un ufficiale dell’anagrafe che alla richiesta dei due genitori scuote la testa.
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“Lo vogliamo chiamare Tullio”.
“Tullio? Impossibile: Tullio è un nome che non esiste”.
Marito e moglie si guardano smarriti.
“Se volete” continua l’impiegato “lo potete chiamare Getullio”.
Valentino ed Elisa sono persone umili e abbozzano.
Tullio Campagnolo, per l’anagrafe, sarà sempre Getullio, soprattutto quando, negli anni a venire, dovrà firmare contratti e documenti ufficiali con quel buffo nome che non ha mai sentito come suo.
Sono anni grami. Mamma Elisa accudisce la casa e i due figli – Tullio ha una sorella più grande, Amelia – ; e qualche volta lavora nei campi. Papà Valentino guadagna da vivere per se e la famiglia con un negozietto
di ferramenta in corso Padova.
Come ogni mito che si rispetti, alle sue origini ci sono delle leggende: una di queste la racconta così Gianni Brera:
“Accanto a quella dei Campagnolo sorge quella del mezzadro che gli coltivava la terra ereditata dalla madre. Zappando in uno dei campi, la futura signora Campagnolo disseppellì una statuetta di bronzo raffigurante un toro: la pulì per bene e la conservò fino al giorno in cui ritenne giusto affidarla a suo figlio. Xè ‘l to retrato, gli disse. […] La sculturina del toro doveva essere stata perduta da un barbaro, dopo averla rubato a Vicenza […]. Certi fatti della vita, in apparenza priva di significato, risultano poi emblematici. Così nessuno può escludere che Tullio abbia avuto dal dono di sua madre la prima conoscenza che i metalli si possono plasmare e fondere a piacimento.”
Il suo apprendistato di plasmatore di metalli e inventore di meccanismi, Tullio Campagnolo lo fa nel negozietto paterno, in quella che, per lui bambino, diventa presto la sua bottega dei miracoli. Anche se fino a 14 anni frequenta la Scuola di Arti e Mestieri di Vicenza, più che con i libri di scuola, il giovane Tullio familiarizza con lime, tenaglie, martelli, incudini, morse. Il suo parco-giochi è un bancone da fabbro dove forgia o aggiusta vanghe, falci, erpici, ruote. Prova un’attrazione irresistibile nel modellare e creare oggetti piegando i metalli.
Nella bottega di corso Padova, Tullio, recuperando pezzi in disuso, mette insieme con le proprie mani la sua prima bicicletta. Per consentire al padre di consegnare ai clienti gli attrezzi nuovi o quelli che ha riparato, costruisce un triciclo con cassone in legno, qualcosa che al giorno d’oggi chiameremmo cargo-bike. È sempre sua l’idea di scrivere con la vernice bianca, bene in vista sulla fiancata, CAMPAGNOLO FERRAMENTA, con tanto di indirizzo e numero di telefono. Fin dalle origini, Tullio dimostra di conoscere benissimo la regola aurea che dice che “la pubblicità è l’anima del commercio”. Oggi quel triciclo, preziosa reliquia, campeggia al primo piano della sede Campagnolo di via della Chimica, alla periferia ovest di Vicenza.
Alla fine della guerra arrivano gli anni della grande popolarità del ciclismo. I giornali fanno i titoli a nove colonne sulle imprese di Costante Girardengo, di Giovanni Brunero, di Ottavio Bottecchia.
Anche Tullio ne è affascinato e prova lui stesso a intraprendere la carriera del corridore. Promette bene: ha un bel fisico, potente e resistente. Corre per il Veloce Club Vicentino, quindi per la Nicolò Biondo di Carpi. Prende parte, senza però grandi risultati, anche a qualche corsa importante, la Milano-Sanremo, il Giro di Lombardia. Cura la propria bicicletta con un puntiglio maniacale: con piccoli ma ingegnosi accorgimenti e modifiche studia il modo per migliorarne l’efficienza: il porta borraccia, il freno, i pignoni, i raggi delle ruote…
Poi, come Paolo sulla strada di Damasco, ecco la rivelazione. L’11 novembre del 1927 si corre, con partenza e arrivo a Padova, il Gran Premio della Vittoria. Tra gli iscritti, come indipendente, c’è anche Tullio Campagnolo, 27 anni, da Vicenza. È una giornata fredda e piovosa.
La corsa passa per Cittadella, Bassano, quindi cominciano le ascese: dapprima le Scale di Primolano, poi, discesi a Fonzaso, a Ponte Serra si torna a salire. Per arrivare ai 1011 metri del passo di Croce d’Aune, nelle Dolomiti Feltrine, ci vogliono 15 km. Come se non bastasse la pioggia intanto è diventata neve. La salita si fa sempre più dura e bisogna cambiare rapporto. A quell’epoca l’unico modo per facilitare la pedalata era scendere di sella, allentare il dado che serrava al telaio la ruota posteriore e girarla sul pignone più piccolo che consentiva un passo più agile in salita. Secondo quanto scrive Brera accade questo: anche se è doveroso dire che, come già per il ritrovamento della statuetta del toro di bronzo, siamo nel campo di una realtà che tende a farsi, se non leggenda, quanto meno romanzo.
“La tormenta ha preso a infierire sulla corsa mettendo in fuga la gente. Quando Tullio salta di sella per girare la ruota le sue dita intirizzite non ce la fanno a smuovere i dadi a farfalla: è tutto in affanno e sudato fradicio, la neve gli turbina intorno facendogli girare la testa. Il primi ripartono, lui non riesce proprio a svitare i galletti […], i dadi a farfalla che fissavano la ruota alla forcella del telaio. Allora deve acconciarsi a salire sderenandosi. Gli altri hanno messo il rapporto più agile: lui si farà tutto ritto sui pedali quella salita che la neve e il fango incarogniscono fino a tentarlo di invertire la marcia e scendere a valle. Ma […] ormai che è in ballo, tanto vale che tenga il tempo. E così ci dà dentro, e soffre sui pedali ma non molla, consolandosi che almeno in discesa non dovrà più cambiare: e proprio qui schiatta la folgore: qui maledicendo alle dita intirizzite dal gelo si dice Tullio: Bisogna cambià qualcossa de drio!“.
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L’inconveniente meccanico a Tullio gioca un brutto scherzo. Non riesce a tenere il passo della fuga e sul traguardo di Padova, dove vince il favorito Antonio Negrini, arriva solo quarto.
Ma da quel momento Campagnolo ha un’idea fissa: bisogna cambiare qualcosa alla ruota di dietro, bisogna trovare il modo di poter sganciare con meno fatica i mozzi della ruota posteriore, per poterla girare con minor perdita di tempo possibile.
Disegni, modelli, prove, esperimenti. L’acciaio si presta, si piega, si plasma a quella sua intuizione e meno di tre anni dopo, l’8 febbraio 1930, Campagnolo deposita il primo dei 185 brevetti da lui firmati. Lo battezza con un buffo nome in rima: Ruotismo per ciclismo.
Sotto la neve del Croce d’Aune Tullio aveva intuito che avvitare e svitare il mozzo ai forcellini del telaio non era la soluzione più pratica. E s’inventa così un asse cavo all’interno del quale viene collocato il tirante, costituito da un cappellotto di chiusura a cui è applicata una leva che serve a bloccare o sbloccare il meccanismo. Basta un movimento per aprire o chiudere.
Nasce lo sgancio rapido, la prima grande invenzione di Tullio Campagnolo, quella che ancora oggi campeggia nel logo Campagnolo con la ruota alata.
Questo è solo l’inizio di una lunga storia. Dal 1933, anno di fondazione della Campagnolo s.r.l., con sede nel retrobottega della ferramenta di corso Padova 101, Campagnolo non è più solo un nome, ma è soprattutto un simbolo, il simbolo della più raffinata tecnologia meccanica applicata alla bicicletta.
La storia del ciclismo si può suddividere in due grandi ere: quella “a.C.”, in cui il corridore affrontava fatiche disumane cavalcando velocipedi di ferro lungo strade disastrate e impervie; e quella “d.C.”, che prende le mosse dal giorno in cui un geniale personaggio trovò il modo di alleviare le fatiche del ciclista perfezionando quello che, come vedremo, diventa il cambio di velocità. La C, nel nostro caso, sta per Campagnolo, l’uomo che ha messo le ali alle biciclette.
Fonti
Gianni Brera, Il gigante e la lima, Campagnolo 1993
http://www.pianop.it/2019/05/31/con-le-ali-alle-ruote/
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