Calcio

L’UEFA sta davvero eliminando la politica dal calcio?

19 Settembre 2019

Uno delle più discusse posizioni dell’UEFA riguarda il divieto di esporre striscioni e intonare cori a sfondo politico negli stadi. Questo provvedimento ha spesso portato a multe e sanzioni nei confronti di diversi club, dato che, soprattutto in determinati ambienti, la sfera politica tende a invadere il terreno della manifestazione sportiva. Per esempio, il Celtic ha una lunga collezione di multe e sanzioni, dovute principalmente all’esposizione di striscioni inneggianti all’IRA (i tifosi di questa squadra scozzese sono prevalentemente cattolici e di origine irlandese) e a manifestazioni di solidarietà verso il popolo palestinese. E mentre è facile giustificare la sanzione nel primo di questi casi, dato che il supporto a un gruppo terroristico non è accettabile, il discorso si fa più complesso riguardo al secondo: manifestare la propria solidarietà a un popolo che soffre è un messaggio da condannare? Una delle sanzioni al club scozzese è arrivata in seguito alla partita con gli israeliani dell’Hapoel Beer Sheva, quando si è pensato che le bandiere fossero state esposte per pura “provocazione politica” verso gli avversari. La solidarietà dei tifosi del Celtic per il popolo palestinese, però, è molto più profonda e ha radici nel passato stesso degli immigrati irlandesi che a Glasgow hanno dato vita a questo club. La loro storia di profughi e diseredati è la stessa dei palestinesi di oggi, delle vittime della segregazione e, più in generale, di tutti gli oppressi. Per questo Marc Patrick Conaghan scrive che “sventolando la bandiera palestinese, i tifosi del Celtic non stavano scegliendo fra Hamas e Fatah, o supportando qualsiasi dei loro punti di vista”. In questo caso, l’UEFA ha sanzionato il Celtic per un comportamento che non ha toccato nemmeno propriamente il campo della politica.

Se l’UEFA si mostra molto attenta nel sanzionare ogni inserto politico durante le proprie manifestazioni, punendo spesso anche messaggi di solidarietà che di politico non hanno nulla, essa non usa lo stesso rigore contro quelle società che portano evidenti messaggi politici nei propri nomi o stemmi, nella modalità di selezione dei calciatori che possono o meno giocare con la loro maglia o che sono finanziate, direttamente o tramite fondi affini, da partiti e governi.

L’AKP E L’ISTANBUL BAŞAKŞEHIR

Il campionato turco ha conosciuto negli ultimi anni un nuovo protagonista, l’Istanbul Başakşehir, che si è classificato sempre vicino alla vetta nelle passate stagioni e che stasera affronterà la Roma in Europa League. Il club è visto come “espressione del potere”, dato che ha la sua base a Başakşehir, nuovo quartiere residenziale di Istanbul, dove abita prevalentemente la borghesia conservatrice legata all’AKP di Recep Tayyip Erdoğan. La società è stata a lungo guidata dal presidente Göksel Gümüşdağ, funzionario del partito, e i colori sociali della squadra sono il blu e l’arancio, gli stessi dell’AKP.

Erdoğan ha più volte assistito dal vivo alle partite del Başakşehir: per esempio, nell’estate del 2017, durante una partita contro il Club Brugge, l’attuale presidente della Turchia è stato più volte ripreso dalle telecamere sugli spalti e a fine partita è sceso negli spogliatoi per salutare personalmente i calciatori.

https://www.youtube.com/watch?v=SeUZRkfwvEM

Nel video del postpartita si nota il cordiale e insistito saluto di Erdoğan con Edin Višća (minuto 1:10), calciatore proveniente dalla Bosnia-Erzegovina e appartenente all’etnia bosniaco-musulmana, verso la quale il presidente della Turchia ha diretto parte della propria propaganda negli ultimi anni, rievocando l’importanza di questa regione nell’Impero Ottomano, finanziando scuole di lingua turca nella capitale Sarajevo e svolgendovi anche un comizio durante la campagna elettorale per le ultime presidenziali.

L’UEFA non ha mai svolto inchieste sullo sfondo politico che circonda l’Istanbul Başakşehir, che non è l’unico club in Turchia che ha qualche legame con il suo Presidente della Repubblica. Per esempio, il Kasimpaşa gioca le partite interne allo Stadio Recep Tayyip Erdoğan.

STELLE ROSSE IN GIRO PER I BALCANI

Nella Ex-Iugoslavia tutti i club erano obbligati a portare una stella rossa a cinque punte, simbolo del comunismo, sul proprio stemma. Con la dissoluzione di questa repubblica federale, molte società hanno eliminato la stella rossa dalle proprie iconografie, tra cui Dinamo Zagabria, Hajduk Spalato, Željezničar e Sarajevo. In molti di questi casi, il posto occupato precedentemente dai simboli comunisti è stato riempito con i simboli nazionali dei neonati stati, come le scacchiere croate e i gigli d’oro bosniaci.

Altri club, in particolare in Serbia e qualcuno anche in Bosnia-Erzegovina, hanno deciso di mantenere la stella rossa nel proprio stemma: è il caso di Partizan, Velež Mostar, Spartak Subotica e, appunto, Stella Rossa. Quest’ultima società porta nel nome e nello stemma un simbolo comunista, ma nella percezione generale il suo ambiente appartiene pienamente alla Destra più estrema. La tifoseria organizzata è stata guidata a lungo da Željko Ražnatović “Arkan”, criminale di guerra al servizio del progetto nazionalista serbo degli anni Novanta, e si caratterizza per un’ideologia pienamente neofascista. Ciò che in questo testo interessa a me, però, non è l’ambiente del tifo, che è quasi sempre e ovunque politicizzato, ma l’aspetto più politico dell’organizzazione societaria in sé, delle persone che guidano ufficialmente il club e dell’iconografia formalmente riconosciuta come appartenente alla società. E anche in questo senso la Stella Rossa non manca di connotarsi politicamente, soprattutto attraverso la figura del suo presidente, Zvezdan Terzić. Nel 2017, Terzić ha dichiarato che sotto la sua presidenza nessun calciatore omosessuale avrebbe vestito la maglia della Stella Rossa, proponendo una restrizione che non si può definire nemmeno politica, trattandosi più propriamente di diritti elementari, ma pienamente discriminatoria.

CRITERI POLITICI DI SCELTA DEI CALCIATORI

Alcune società scelgono i propri giocatori sulla base della loro nazionalità o regione di origine senza cadere in comportamenti discriminatori, basandosi, però, comunque su un criterio vagamente politico. L’Athletic Club di Bilbao è una società con una forte impronta nazionale: è difficile non legare questo club alla storia dei Paesi Baschi e al relativo progetto indipendentista. Solo giocatori baschi, nati nei Paesi Baschi o cresciuti nel settore giovanile di una squadra basca possono vestire la maglia dell’Athletic. Questo fatto ha portato la società a curare molto lo sviluppo dei giovani locali, in modo da avere sempre a disposizione un buon gruppo di calciatori con cui comporre una squadra di grande qualità.

La società non propone una restrizione discriminatoria perché non impedisce a determinati gruppi di persone, identificati da una precisa appartenenza nazionale o da un orientamento di qualsiasi tipo, di rappresentare l’Athletic, ma pretende di giocare con calciatori cresciuti e formati nei Paesi Baschi. Se la scelta dei giocatori non è discriminatoria, è più difficile dire che non sia vagamente politica, dato che la volontà di avere soltanto calciatori legati ai Paesi Baschi riflette le forti spinte indipendentiste della regione, di cui l’Athletic spesso è stato espressione.

Una società che propone, invece, restrizioni su base etnica nella scelta dei propri calciatori è il Široki Brijeg, che milita nel campionato bosniaco. La squadra viene da una piccola città dell’Erzegovina, abitata quasi interamente da croati. Il presidente del club è Zlatan Mijo Jelić, ex generale dell’esercito croato in Bosnia-Erzegovina, ricercato dall’Interpol nel 2018 e accusato di crimini di guerra dal Tribunale della Bosnia-Erzegovina. Da diversi anni Jelić vive in Croazia, nonostante le accuse a proprio carico, e da lì dirige il club. Da quando Jelić ha preso in mano la società, i calciatori appartenenti all’etnia bosniaco-musulmana e serbo-ortodossa non hanno potuto vestire la maglia del Široki Brijeg. Una norma discriminatoria, perché colpisce due gruppi per la loro appartenenza etnica, attuata con grande cura da un club che gioca regolarmente nelle competizioni UEFA. Osservando le formazioni che hanno rappresentato il Široki Brijeg dagli anni Novanta a oggi, si può notare come tutti gli allenatori e la grandissima parte dei calciatori siano stati di etnia croata. A differenza dell’Athletic, nel Široki Brijeg hanno giocato diversi giocatori stranieri, soprattutto brasiliani, ma mai nessuno appartenente alle etnie precedentemente citate, che convivono in Bosnia-Erzegovina insieme ai croato-bosniaci.

FINANZIAMENTI DA PARTI POLITICAMENTE INTERESSATE

Un club senza un fondo economico sicuro e un budget di almeno qualche milione di euro non può essere competitivo. L’origine dei finanziamenti delle società si intreccia spesso con la sfera politica. È il caso dell’Astana, squadra campione di Kazakistan ininterrottamente dal 2014 a oggi e protagonista di diverse apparizioni nelle competizioni UEFA, fra cui alcune partite della fase a gironi della Champions League del 2015/2016. Il proprietario del club è il fondo sovrano Samruk-Kazyna, controllato dal governo del Kazakistan, che ha investito importanti somme di denaro nella società e nelle sue infrastrutture: pochi club possono vantare uno stadio come l’Astana Arena, costruita nel 2009 e costata 150 milioni di euro. Gli investimenti del governo kazako hanno creato una squadra forte e solida che porta in giro per l’Europa un’immagine di sviluppo e ricchezza del Paese. I colori sociali dell’Astana sono il giallo e l’azzurro, gli stessi della bandiera kazaka.

Il Kazakistan non brilla per rispetto dei diritti umani e delle più basilari libertà, proprio come una regione che cerca da tempo di farsi stato nel Nord della Moldavia: la Transnistria. Il suo capoluogo si chiama Tiraspol, dova ha sede il FC Sheriff, squadra che rappresenta un territorio de facto indipendente dalla Moldavia. Il Sheriff, che ha più volte giocato la fase a gironi dell’Europa League, è una società molto ricca e porta il nome della Sheriff, una compagnia fondata negli anni Novanta da due ex membri dei servizi segreti, che oggi controlla un monopolio nella regione, essendo l’unica società autorizzata a importare prodotti esteriL’Espresso, oltre a sottolineare come la Transnistria sia una delle dittature più severe e corrotte al mondo (accusata di traffico di prostitute, droga e armi), ha riportato che la Sheriff è controllata dal figlio dell’ex presidente Igor Smirnov e che è compromessa con il potere governativo. Secondo la BBC, che al pari dell’Espresso riporta un’immagine terribile della regione, la Sheriff appartiene alla famiglia Smirnov ed è utilizzata per riciclare il denaro sporco, che pare quindi lo stesso che finanzia la squadra di calcio.

È GIUSTO ELIMINARE LA POLITICA DAL CALCIO?

Alla luce di questi fatti è difficile sostenere che l’UEFA stia davvero eliminando la politica dal calcio. Si tratta, per quel che si può vedere, più di una politica ipocrita volta a colpire le espressioni più evidenti negli stadi, senza discutere molto sull’effettiva presenza del messaggio politico in esse. Vista la grande compenetrazione tra la sfera calcistica e quella politica, che mi pare ormai inevitabile, è forse meglio chiedersi se sia giusto sanzionare ogni intrusione della politica nel calcio. L’UEFA potrebbe disporre un nuovo regolamento, che tolleri anche la presenza di messaggi politici negli stadi (e soprattutto di quelli di solidarietà), punendo rigorosamente, invece, quelli che veicolano idee di discriminazione di qualsiasi genere. Ci vorrebbe, poi, maggiore attenzione agli aspetti più politici e discriminatori delle stesse società. Anche le figure dirigenziali ufficiali dovrebbero essere soggette a un controllo. Ci sono molti casi limite ed è difficile ma non impossibile definire una linea di separazione fra ciò che è lecito fare e ciò che non lo è. In questo modo, si potrebbe distinguere, per esempio, il controllo del Milan da parte di Silvio Berlusconi, che pur essendo politicamente non disinteressato era legittimo, dal controllo del Sheriff della famiglia Smirnov, che ha evidentemente molti punti oscuri. Non si tratta di distinguere il politico dal non-politico, ma il legittimo dall’illegittimo.

D’altra parte, passando su un versante più lontano dalla sfera politica, un controllo sulle finanze e sull’origine dei soldi che danno il carburante ai club dovrebbe essere una priorità per un operato trasparente dell’UEFA. Nessuno può vietare che uno stato finanzi una squadra, finché ciò è fatto in maniera legale e con mezzi puliti, ma nel caso un’inchiesta confermasse i tanti indizi a favore, per esempio, dei finanziamenti sporchi del Sheriff, sarebbe il caso che anche l’UEFA intervenisse nel proprio dominio di competenza, sanzionando il club, o che perlomeno, già da ora, se ne interessasse, visto che ci sono seri sospetti sulle irregolarità della società di Tiraspol.

Nel complesso, l’UEFA dovrebbe ambire a combattere realmente la discriminazione e lo sporco nel calcio europeo e non continuare nella semplicistica idea che vietare ogni espressione politica sugli spalti sia il modo migliore per difendere il calcio dall’inevitabile conflittualità della sfera politica. Fin quando si insisterà con questo modo di agire ipocrita e di facciata, continueranno a presentarsi negli stadi messaggi politici, di solidarietà e di discriminazione, senza che le sanzioni dell’UEFA riescano a farne giustizia, distinguendo quelli legittimi da quelli che sono assolutamente da condannare. Le sanzioni applicate oggi non distinguono granché, per esempio, la solidarietà dal razzismo e generano una sempre maggiore e inevitabile avversione dei tifosi nei confronti di un’organizzazione che già non ha fatto molto per farsi apprezzare negli scorsi anni.

 

(L’immagine di copertina è stata realizzata da Emerson Vieira.)

 

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