Calcio

Vincere non è l’unica cosa che conta

4 Giugno 2017

E’ facile dire che il Real Madrid ha meritato di vincere la sua dodicesima Champions League. E’ vero, chiaro. E’ meno facile commentare la settima sconfitta della Juventus su nove finali di Champions disputate. Si dirà che il Real si è dimostrato superiore e con più attitudine a giocare certe partite. Probabilmente, è così. Ma forse non è tutto. C’è che la Juventus nel primo tempo ha giocato piuttosto bene, è stata nel complesso superiore al Real e avrebbe anche meritato di andare in vantaggio. Nel secondo tempo, però, è come se i bianconeri non siano entrati in campo. Si sono come spenti. E passi per un pizzico di sfortuna, per i due gol subiti sui tiri deviati di Ronaldo e di Casemiro, prima e dopo il bellissimo pareggio in rovesciata di Mario Mandzukic. E anche per la beffa dell’espulsione ingiusta di Juan Cuadrado per via di una simulazione di Sergio Ramos, quando però ormai si era già sul 3-1 e il risultato era segnato. Il punto è che la Juventus, nemmeno la copia sbiadita di quella che poche settimane fa ha eliminato e annichilito il Barcellona, nel secondo tempo non ha giocato. Il portiere bianconero Gigi Buffon nel dopo partita ha detto che il calo potrebbe essere stato determinato da un eccessivo dispendio di energie nel primo tempo, quasi che la Juventus, provando, e per diversi tratti riuscendo, a fare la partita sia andata fuori giri. Qualcosa di simile ha detto anche l’allenatore Massimiliano Allegri in conferenza stampa. Può essere che sia così. Ma forse non è tutto. Il blackout mentale e fisico del secondo tempo resta anomalo, difficile da comprendere e da spiegare del tutto. E, come a evidenziare su un piano ben più grave di quello sportivo l’anomalia della serata, c’è che a Torino, in piazza San Carlo, forse a causa di un falso allarme bomba o di una lite tra tifosi, tra le persone che assistevano alla partita si è scatenato il panico e una corsa collettiva a scappare dalla piazza. Il bilancio è drammatico: oltre 1500 feriti, di cui tre gravi. E a due settimane dalla partita l’esito della nottata torinese è ancora peggiore: una donna di 38 anni, da subito tra i feriti più gravi, è morta.

Può sembrare retorico parlare di coppa stregata, di destino, di ragioni imperscrutabili. E forse lo è. Ma perdere sette finali su nove di Coppa dei Campioni-Champions League fa pensare. A un certo punto, qualcosa gira storto, quasi sempre. Strano. Considerato che più volte la Juventus è arrivata, come si racconta qui, in finale da favorita o, come quest’anno, con un cammino su cui ragionevolmente potevano fondarsi delle speranze. Aggiungendo pure che una delle due finali vinte è quella del 1985 contro il Liverpool allo stadio Heysel di Bruxelles, fatta giocare per opinabili ragioni di ordine pubblico, e dei 39 morti per colpa della follia degli hooligans e della disorganizzazione della polizia belga. Ovvero, qualcosa che con lo sport non ha nulla a che fare.

C’è qualcosa di insondabile che avvicina alla tragedia greca il rapporto tra la Juventus e la Champions League. Chi scrive ha a cuore il tema perchè, come sa chi lo conosce, è tifoso della Juventus. Sembra che si tratti di una sorta di predestinazione alla sconfitta. Passando dalla tragedia greca ai poemi omerici, all’Iliade, verrebbe da dire che la Juventus in certe finali sembra essere Ettore che sfida Achille, l’invincibile, il semidio. Ettore che quindi si batte, già battuto. Allo stesso modo pare che la Juventus perda perchè non può essere che così, per via di forze sempiterne, per necessità, per l’Ἀνάγκη dei greci. Quasi che solo sperare di vincere certe partite, certe finali, quelle partite e non altre, in cui la forza della squadra si esprime sicura, e come per un diritto naturale, fosse un’offesa agli dei, una cosa inammissibile, tracotanza, ὕβϱις, per scomodare ancora la Grecia antica.

E una cosa che va accettata. Fa parte dello sport, e della vita. Si vince e si perde. Ci sono il sì e il no. Il bianco e il nero, come sulla maglia della Juventus, che molte volte è vittoriosa in Italia e spesso perdente nelle finali europee. Fa parte del gioco. E, se vogliamo, dell’incantesimo. E per rompere l’incantesimo forse la Juventus deve rinunciare a qualcosa di sè, attenuare quella sua vocazione e abnegazione templare, e abdicare al suo eccesso scorpionico, di cui si parla in questo articolo, rappresentato dal motto Fino alla fine stampato sulle maglie, dalla famosa frase di Giampiero Boniperti, grande giocatore e altrettanto grande presidente, Vincere è l’unica cosa che conta. Il presidente Andrea Agnelli, dopo aver abbracciato e rincuorato i giocatori, come un capo, un vero leader deve saper fare in casi come questi ha detto: “L’anno prossimo dovremo andare in campo ancora più cattivi di come abbiamo fatto finora”. E più cattivi qui, chiaramente, significa più determinati, con ancora più grinta. Questa squadra, comunque assai forte, può essere migliorata. E’ difficile, ma è possibile. Ma non credo che a questi giocatori si possa imputare qualcosa sul piano dell’impegno.

Dovendo dare un consiglio per il futuro alla Juventus, ad Agnelli, ad Allegri e ai giocatori, direi loro di pensare alla Champions League con distacco, senza esserne ossessionati, senza sentirsi addosso l’obbligo, e la paura, di vincere. Anche perchè l’obbligo di vincere, semplicemente, non esiste. Lo scrittore Fernando Coratelli, che ha visto la partita con me, a un certo punto, verso la fine del secondo tempo, ha detto che forse prima della partita Allegri, peraltro di solito abile a gestire la tensione, avrebbe potuto dire qualcosa di simile a quello che disse Josè Mourinho, allora allenatore dell’Inter, durante la Champions del 2010, prima della semifinale di ritorno con il Barcellona, che però doveva rimontare il 3-1 subito a Milano all’andata: “Io ho raccomandato loro (ndr. ai giocatori dell’Inter) di inseguire un sogno, non un’ossessione, mentre invece per il Barcellona è un’ossessione. Il sogno è più puro di una ossessione. Per il Barcellona raggiungere le finali di Parigi e di Roma è stato un sogno, ma arrivare alla sfida decisiva al Santiago Bernabeu, nella tana del Real Madrid, è un’ossessione. Lo sarebbe anche per noi se andassimo a giocarci la Champions a Torino”. E’ una prospettiva mentale da considerare, uno spunto di riflessione. Sulla stessa lunghezza d’onda è l’attore Alessandro Davoli che commentando un post sul mio profilo Facebook ha scritto: “La Champions League per la Juventus (e per gli juventini) sta diventando un po’ come una donna che ti piace molto, che esce a cena con te e poi sul più bello ti dà il due di picche. Forse quando capiremo che dobbiamo giocare le finali pensando di dare noi il due di picche a questa donna immaginaria, senza accorgercene, vinceremo”.

Ecco, riflettiamoci, pensiamoci su, cara Juventus, almeno in Europa, proviamo a cambiare modo, a trasformare il mood e la forma mentis. Anche solo per provocazione, o per gusto del gioco e del paradosso. Ribaltiamo la frase bonipertiana e diciamo che Vincere non è l’unica cosa che conta.

Foto di copertina: Gianluigi Buffon (Reuters).

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