Calcio
Germania Ovest-Olanda, la fine di un sogno
Quando raggiungiamo l’età adulta, i motivi delle scelte compiute da bambini retrocedono in un’area nebulosa della mente e le ragioni di quelle scelte ci paiono imperscrutabili.
Per quanto mi sforzi di ricordare, è avvolta nell’oblio la ragione che mi spinse a tifare Juventus. Tutto quello che affiora – sempre che non si tratti di una memoria ricostruita – sono un gruppo di pargoletti nel cortile della scuola materna che frequentavo, intenti a informarsi sulle reciproche preferenze calcistiche allo scopo di dotarsi delle prime rudimentali bussole nel sistema delle relazioni sociali. Tu per chi tifi, mi fu chiesto. Professarmi agnostico dovette sembrarmi inaccettabile, qualcosa che avrebbe forse messo a repentaglio l’appartenenza al gruppo dei miei pari.
Abitavo a Firenze e mio padre mostrava appena un blando attaccamento alla squadra viola. Non mi aveva alfabetizzato al gioco né tantomeno vaccinato contro il virus della “gobbitudine”, e di impulso formulai una risposta non meditata: sono per la stessa squadra di Tiziano. Tiziano era il mio migliore amico, era più grande e pensai che fosse in grado di prendere in piena consapevolezza decisioni così impegnative.
Perciò sposai la causa bianconera, senza sapere che quella scelta mi avrebbe condannato a 13 anni di isolamento e sfottò: fino alla maturità sarei stato infatti circondato dai tifosi più anti-juventini d’Italia, soffrendone non poco perché il calcio diventò in breve la più grande ossessione della mia vita.
Molto presto scoprii anche che il calcio mi avrebbe condotto “al dolore e allo sconvolgimento” [1]. Più precisamente 50 anni fa, il 7 luglio 1974, quando l’Olanda del calcio totale divenne la più forte squadra di tutti i tempi a non fregiarsi del titolo di campione del mondo. Sulla soglia della gloria, fu respinta da una compagine – bisogna pur ammetterlo – altrettanto forte e appena meno fascinosa, la Germania Ovest di Franz Beckenbauer e Gerd Müller. Io però mi ero “improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente” [2] innamorato degli oranje di Johan Cruijff (a proposito, si pronuncia correttamente così) e precipitai in una profonda disperazione, come soltanto a sei anni può capitare. Perché mi infatuai di questo gruppo di sconosciuti calciatori non è meno misterioso della mia fede juventina.
Prestanti e biondi per la maggior parte, dovettero sembrarmi belli e insieme enigmatici, poiché assomigliavano di più alle rock-star che vedevo sui rotocalchi che agli eroi degli stadi cui ero abituato. Avevano folte basette secondo la moda dell’epoca e sulle spalle piovevano lunghi capelli, particolare che invidiavo molto perché contro la mia volontà ero costretto a tenerli corti. Inoltre, avevano una maglia abbacinante, che sulle riviste era di un arancione brillante, e in più – con ancora maggior contrasto cromatico – indossavano linde cavigliere bianche, che non tardai a comprare quando cominciai a giocare a mia volta.
Inoltre, vincevano e avevo bisogno che qualcuno riempisse il vuoto lasciato dalla precoce eliminazione degli Azzurri di Ferruccio Valcareggi, battuti dalla Polonia alla fine di una sfortunata partita che avevo visto mentre giacevo a letto febbricitante, così che il dolore fisico si era sommato a quello psicologico per causare il massimo danno possibile. Perché vincevano lo ignoravo, benché avessi intuito la grandezza del n. 14, che il più delle volte veniva inquadrato con il braccio teso e l’indice puntato, nell’atto di ordinare ai compagni cose da fare o porzioni di campo da occupare.
Niente sapevo di “calcio totale”, per quanto l’Olanda fosse zeppa di giocatori dell’Ajax e del Feyenoord, che avevano vinto quattro delle ultime cinque Coppe dei Campioni. Non erano ancora i tempi dell’onnipresente occhio televisivo e la stessa ignoranza, nella prima partita del Mondiale, parve impedire all’Uruguay di approntare qualsivoglia contromisura per neutralizzare la costante aggressione con cui gli oranje asfissiavano i compassati portatori di palla sudamericani. Quel 2-0 all’esordio fu un’autentica collisione fra due mondi, la versione calcistica del massacro di Cajamarca del 1532, quando meno di 200 spagnoli sterminarono in un’ora 5.000 soldati inca, ponendo fine al regno di Atahualpa.
Con naturalezza e senza sforzo apparente, l’Olanda approdò al secondo turno, lasciando per strada appena un pareggio con la Svezia, quando peraltro il capitano si esibì nella leggendaria “Cruijff turn”. Poi furono sottomesse l’Argentina, la Germania Est e persino il magno Brasile, che – avevo saputo in qualche modo – rappresentava la quintessenza del football ed era pure campione in carica. In pratica, quando la selezione allenata dal “santone” Rinus Michels si presentò sul terreno dell’Olympiastadion di Monaco di Baviera per la finalissima, il destino sembrava già scritto.
Poco importava che gli olandesi fossero dei parvenu del calcio, che non disputavano la Coppa del mondo dal 1938. Ancor meno che affrontassero i padroni di casa, cui per contro non difettava un già nobile pedigree, freschi vincitori del titolo europeo e soprattutto – particolare inquietante che avrei scoperto solo anni dopo – già campioni iridati nel 1954, quando avevano interrotto il volo di un’altra generazione di predestinati, i magici ungheresi di Ferenc Puskás e Nándor Hidegkuti. Insomma, per opinione pressoché unanime, bastava che Cruijff e compagni si chinassero a raccogliere quanto era loro dovuto per diritto divino.
Gli oranje batterono il calcio d’inizio. Quasi indolentemente, si scambiarono il pallone per una trentina di secondi, fino a quando Cruijff lo pretese nel cerchio di centrocampo. Caracollò fino a imbattersi in Berti Vogts, il mastino incaricato di fargli la guardia, e lo superò con la sua caratteristica e bruciante accelerazione. Sul limitare dell’area di rigore (forse dentro, forse fuori), fu abbattuto da Uli Hoeness, inducendo il fischietto inglese Jack Taylor a concedere il rigore. Mentre Beckenbauer questionava rassegnatamente con l’arbitro, Neeskens aveva già accomodato il pallone sul dischetto, dal quale lo scagliò in gol con gelida violenza: finalmente anche i tedeschi poterono toccarlo, quando il portiere Sepp Maier lo raccolse in fondo alla rete.
Nei tre minuti successivi, Vogts atterrò Cruijff con due violenti tackle, rimediando un cartellino giallo. Sembrava l’ideale viatico per una trionfale cavalcata, ma qualcosa andò storto per la squadra ribattezzata Arancia meccanica. Anni dopo, gli olandesi spiegarono di aver peccato di presunzione, di aver indugiato in una sterile accademia, di aver sottovalutato l’avversario barcollante. Soprattutto, non ebbero l’usuale contributo del loro “Profeta del gol”: riguardando oggi le immagini, Cruijff appare svagato, quasi disinteressato, insolitamente fuori dal fulcro del gioco.
Sembra che i giorni precedenti avesse tristi pensieri e che la notte prima della gara l’avesse passata al telefono con la moglie, che minacciava il divorzio. Nonostante lo status di superstar e le schiere di groupie che lo assediavano, Cruijff conduceva una vita privata relativamente tranquilla ed era devoto alla famiglia. La consorte Danny era sconvolta per le notizie che aveva letto sul giornale. Il reporter tedesco Guido Frick si era introdotto nell’albergo della nazionale di Michels fingendosi un rappresentante di spätzle. Aveva familiarizzato con la squadra e la sera del 30 giugno si era unito a una festa in piscina rallegrata da molte bottiglie di champagne e animata dalle canzoni dei Bee Gees e del gruppo olandese The Cats. A notte fonda, la musica era ancora alta e alcuni giocatori si intrattenevano disinvoltamente con alcune ragazze poco vestite. Frick scrisse un articolo pruriginoso, che sulla Bild Zeitung uscì con il titolo “Cruijff, champagne, ragazze nude e un bagno rinfrescante”.
Quale che fosse la ragione, Cruijff giocò sotto i suoi standard. Per un presunto fallo ai danni di Bernd Hölzenbein, i bianchi di Helmut Schön ottennero un rigore, che fu trasformato dal terzino Paul Breitner. L’inerzia della gara cambiò e pochi minuti dopo Vogts si presentò addirittura nell’area avversaria, costringendo il portiere Jan Jongbloed a un’acrobatica deviazione in angolo. Prima della pausa, il fato si compì. Una percussione di Rainer Bonhof si concluse con un cross basso verso un nugolo di maglie arancioni. Come materializzatosi dal nulla, Müller arpionò la sfera e con una repentina giravolta spalancò uno spazio enorme in un fazzoletto di prato: un debole calcetto e la palla rotolò docilmente in rete.
Cruijff rientrò infuriato negli spogliatori, facendosi pure ammonire da Taylor. Nella ripresa, gli uomini di Michels attaccarono a testa bassa, quasi cingendo d’assedio i sedici metri dove Beckenbauer torreggiava con calma estatica: gli dei del pallone avevano ormai stabilito che la favola oranje non avesse lieto fine.
Mentre osservavo incredulo, e sempre più straziato, lo svolgersi dei tambureggianti e vani assalti olandesi, imparai che il calcio è una scienza inesatta, che il presunto migliore non sempre vince e che la disfatta attende nell’ombra di lanciare l’imboscata fatale. I tedeschi alzarono la coppa e Cruijff, Wim Van Hanegem, Johnny Rep, Ruud Krol e gli altri meravigliosi protagonisti dell’Arancia meccanica entrarono nella piccola leggenda del calcio per non aver coronato uno splendido sogno, anche se vennero ricevuti con i dovuti onori dalla regina Giuliana al ritorno in patria.
Io la presi molto peggio. Accortosi di quanto fossi mortificato, mio padre mi propose di tirare due calci al pallone. Mentre uscivamo di casa, incontrammo un amico di giochi, anche lui accompagnato dal genitore. Entrambi erano visibilmente su di giri e mi si rivolsero immaginando di condividere la gioia per la vittoria della Germania Ovest. Stavo talmente male che salii sul carro dei vincitori: come San Pietro negai di essere un seguace del profeta e fu così che alla piaga della sconfitta si sommò la vergogna del tradimento.
[1] Inizia così il romanzo di Nick Hornby, Febbre a 90°, Guanda, 1997
[2] È il modo in cui Nick Hornby si innamora del calcio, in op. cit.
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