Calcio

“…caro, vecchio Nereo…”

20 Febbraio 2023

Il 20 febbraio 1979 nell’Ospedale Maggiore di Trieste, dopo una breve malattia, si spegneva Nereo Rocco.

Figura iconica di un calcio che non c’è più, “il paròn” rappresenta per noi figli del Diavolo rossonero la figura che più di ogni altra ha incarnato l’amore per il football coniugato alla passione per il Milan.

Nell’anniversario della sua scomparsa vi proponiamo una sua breve biografia ed a seguire la lettera che gli scrisse il suo grande amico Giovanni Luigi Brera, Gianni Brera il Grangiuàn.



Nacque a Trieste, nel rione popolare di San Giacomo, il 20 maggio 1912, da Giusto (1891-1968) e da Giulia Schillan (1888-1952). La coppia ebbe anche due figlie, Silvana (1913-1989) e Nedda (1919-1969). Il cognome paterno era Rock, austriaco.

Il nonno, Ludwig, si trasferì da Vienna a Trieste per amore di Giovanna, nonna di Nereo, e avviò una bottega di cambiavalute. Giusto, uno dei cinque figli di Ludwig, iniziò una redditizia attività di forniture di carni all’ingrosso e poi aprì una macelleria in centro città. Il cognome Rock cambiò in Rocco nel 1925: una italianizzazione decisa da Giusto per non urtare le autorità fasciste. Il cognome sarebbe dovuto essere Rocchi, ma l’errore dell’anagrafe consacrò quello di Rocco.

Unione Sportiva Triestina – 1930 – Nereo Rocco

Nereo aveva diciassette giorni quando la famiglia si trasferì in una casa signorile in via Rossetti, nel quartiere Montebello. In un campo vicino a casa, iniziò ad assistere agli allenamenti dell’Unione sportiva triestina. Fu il suo primo incontro con il calcio. A nove anni fondò una squadra, La Fulminea. A tredici anni la svolta. La Fulminea affrontò la Società ginnastica triestina guidata dall’allenatore Piero Tercovich e dal dirigente Ovidio Paron. Fu quest’ultimo a proporre al ragazzo, centromediano, di entrare nei Boys della Ginnastica. Rocco accettò. Paron riuscì a vincere le resistenze di papà Giusto, che avrebbe voluto il ragazzo in macelleria. Rocco terminò le scuole medie inferiori e ottenne l’attestato con buone votazioni. Nel 1926 disputò l’ultimo campionato con la Ginnastica. L’anno successivo Pietro Pasinati e Carlo Cerni, il primo calciatore e il secondo dirigente, massaggiatore, talent scout e factotum della Triestina, lo portarono nella squadra alabardata. Rocco giocò nelle giovanili prima di passare alle riserve della prima squadra. Nel frattempo fondò due squadre: Audace e Trieste. Nella primavera del 1927, l’esordio in prima squadra contro l’Edera. La Triestina prevalse 3-1. Rocco, schierato come mezzala, segnò una delle reti.

La stagione 1927-28 vide alla guida della Triestina il viennese Rudolf Soutschek. L’allenatore rimase impressionato dal ragazzo quindicenne, fisico massiccio, combattivo al massimo, con un potente tiro di sinistro. Rocco debuttò in serie A il 6 ottobre 1929, nella partita persa dalla Triestina 0-1 contro il Torino. Giocò titolare dal campionato 1930-31 al campionato 1936-37, disputando 231 partite e realizzando 70 reti, risultando spesso il miglior cannoniere e fra i migliori in assoluto.

Il 6 aprile 1933 arrivò per Rocco la chiamata alle armi, destinazione il 52° reggimento fanteria casale, di stanza a Trieste. Favorito dalla condizione di giocatore professionista, lavorò in fureria, formò una squadra di calcio e trovò posto nella banda del reggimento.

Il Calcio Illustrato 1934-35

Il campionato 1933-34 fu memorabile per i risultati sul campo e per l’approdo in Nazionale. Vittorio Pozzo convocò Rocco per la partita disputata dall’Italia il 25 marzo 1934 contro la Grecia e vinta 4-0. Rocco andò anche in ritiro per il Campionato mondiale, ma non venne selezionato. Giocò nella Nazionale B, realizzando uno dei goal con cui, il 27 ottobre 1935, l’Italia superò la Cecoslovacchia per 3-1.

Alla fine del campionato 1934-35 Rocco sposò Ednea Fon, ventiduenne figlia di un ammiraglio. Il viaggio di nozze fu la tournée postcampionato che portò la Triestina in Austria, Cecoslovacchia, Iugoslavia. Al ritorno lo stato di salute della moglie, malata di tisi, peggiorò ed Ednea morì nella primavera del 1936.

La stagione 1936-37 fu l’ultima di Rocco con la Triestina. Il Napoli lo acquistò per 160.000 lire e Rocco esordì nella prima giornata di campionato, il 12 settembre 1937, nella sconfitta in trasferta contro il Bologna. Nella nona giornata, il 14 novembre 1937, realizzò l’unica rete della stagione, quella che permise al Napoli di pareggiare 2-2 contro il Genoa.

Tornò a Trieste nell’estate del 1938 e dopo un anno, durante una crociera, rivide Maria Berzin, 26 anni, che aveva conosciuto l’anno prima a una festa da ballo al castello di San Giusto. Maria era figlia di commercianti di alimentari e impiegata in una merceria. Si sposarono a Napoli il 19 ottobre 1939 e il 26 marzo 1940 nacque Bruno.

1940

Nel 1940, Rocco fu richiamato alle armi in Sardegna. Il 1940 fu l’ultimo anno al Napoli. Il bilancio complessivo fu di 7 reti in 52 partite.

Il 10 novembre 1940 esordì con il Padova in serie B. Il 12 luglio 1942 terminò la sua carriera professionistica. Il bilancio fu di 47 partite con 14 reti. Nell’estate del 1942 il soldato Rocco venne trasferito a Trieste e vestì la maglia del 94° distretto militare in serie C. L’8 dicembre 1942 nacque il secondo figlio, Tito.

Il 10 giugno 1944 gli aerei alleati bombardarono Trieste, e nel maggio successivo la città subì l’occupazione iugoslava. Un comitato costituì la società Triestina S. Giusto. Nell’autunno del 1945 la Triestina riprese il nome originario. Rocco accettò l’offerta di suoi amici del Cacciatore, un quartiere periferico di Trieste, e divenne giocatore-allenatore della squadra, in un campionato di dilettanti. Il Cacciatore vinse la finale con il Cavana, la squadra del quartiere del porto. Una sera, mentre Rocco e gli altri festeggiavano in sede, qualcuno lanciò tre bombe contro le finestre. Quattro persone rimasero ferite. La squadra venne sciolta. Nel 1946-47 Rocco allenò la Libertas Trieste in serie C e si inventò, sperimentandolo di persona, il ruolo di battitore libero. La Triestina, messa al bando dal governo militare alleato, disputò il campionato di serie B a Udine e terminò ultima. In un’assemblea della Federazione Calcio a Perugia, nel 1947, si decise il ripescaggio. Il gruppo triestino andò in pellegrinaggio di ringraziamento ad Assisi e Giuseppe Girani indicò Rocco come allenatore.

La squadra disputò un campionato strepitoso classificandosi seconda, appaiata a Juventus e Milan, alle spalle del Torino. Nacque il soprannome ‘el paròn’ (il padrone), che accompagnò Rocco per tutta la vita riassumendone le caratteristiche fisiche e soprattutto caratteriali: parlata triestina, fisico massiccio, tratto ruvido ma indole generosa, severo, esigentissimo con i giocatori, molto attento però ai rapporti umani.

La Triestina fu ottava nelle stagioni 1948-49 e 1949-50. Nel 1949 Rocco entrò in Consiglio comunale per la Democrazia Cristiana. Nel giugno del 1950 terminò il rapporto con la Triestina per contrasti con la dirigenza e nonostante l’insoddisfazione della tifoseria le sue dimissioni furono annunciate il 24 giugno.

Nel 1951 Rocco venne chiamato ad allenare il Treviso in serie B. Nel 1953 tornò alla guida della Triestina. Il 21 febbraio 1954, allo stadio Grezar, la squadra, fino ad allora imbattuta in casa, venne travolta dal Milan per 6-0. Due giorni dopo una telefonata comunicò a Rocco l’esonero. Meno di un mese dopo fu chiamato alla guida del Padova, penultimo nel campionato di serie B. Evitò le retrocessione e nella stagione successiva il Padova conquistò la promozione in serie A. Guidò quindi la campagna acquisti e approdarono allo stadio Appiani Ivano Blason, Gianni Azzini, Silvano Moro, destinati a costituire, con Aurelio ‘Lello’, la grande difesa dei ‘Panzer’. Il Padova terminò il campionato 1955-56 e quello successivo in ottava posizione. La stagione successiva fu il capolavoro di Rocco. Rafforzata con lo svedese Kurt Hamrin, ala destra, la squadra si piazzò al terzo posto, alle spalle di Juventus e Fiorentina.

Nacque in quegli anni il dibattito sul cosiddetto ‘catenaccio’, l’impostazione difensiva del Padova di Rocco, che trovò illustri sostenitori, primo Gianni Brera. La squadra fu sesta nel 1958-59, quinta nel 1959-60, ancora sesta nel 1960-61. Nel 1960, Rocco allenò la Nazionale olimpica che si classificò quarta alle Olimpiadi di Roma.

Fu Giuseppe (Gipo) Viani a volere Rocco al Milan. Il presidente Andrea Rizzoli diede il suo assenso dopo avere visto la sua squadra travolta dal Padova per 4-1. Il 30 maggio 1961, penultima giornata di campionato, il Padova superò 1-0 la Juventus e Rocco salutò i tifosi. Il 6 giugno tenne una serata di commiato.

Nel Milan si affermò il talento calcistico di Gianni Rivera, alessandrino, classe 1943. Dal Brasile giunse il ‘regista’ Dino Sani. L’8 aprile 1962 fu un’apoteosi a San Siro: il Milan battè 4-2 il Torino e conquistò l’ottavo titolo. Nella stagione successiva, anche per le divergenze fra Rocco e il direttore tecnico Viani, la squadra offrì in campionato un rendimento altalenante, ma venne la consacrazione in Europa, la prima di una squadra italiana. Il 22 maggio 1963, nello stadio di Wembley, con due goal del centravanti José Altafini, il Milan piegò i portoghesi del Benfica nella Coppa dei Campioni.

Herrera e Rocco

Il quasi contemporaneo arrivo a Milano di Rocco e di Helenio Herrera all’Inter segnò l’inizio dell’epoca aurea delle due squadre. La diversa, opposta, eppure complementare caratterialità, risultò ideale per esaltare la tradizionale rivalità fra i due club. Rocco venne consacrato nella rivalità sportiva e nell’antinomia umana con Herrera.

Al rigido Herrera ‘il mago’, severo, autoritario, distaccato nei rapporti con i calciatori, elegante fino alla raffinatezza, cosmopolita (nato a Buenos Aires da genitori spagnoli, naturalizzato francese), poliglotta, salutista, si contrappose Rocco ‘il paròn’, legatissimo alle sue radici, disinvolto nell’esprimersi solo in triestino, epicureo, nottambulo, ruvido nel tratto ma umano, il ‘tu’ ai giocatori, aperto al dialogo al punto da formare nella squadra una commissione interna con cui consultarsi prima delle partite.

Rocco venne premiato con il Seminatore d’oro, come migliore allenatore italiano. Nel 1963 passò al Torino, dove rimase per due stagioni, l’ultima come direttore tecnico. Il miglior risultato fu il terzo posto nella stagione 1964-65.

1967-68 Fonte acmilan.com

Nel 1967 Franco Carraro, presidente di un Milan reduce da risultati deludenti, richiamò Rocco. L’allenatore portò da Torino lo stopper Roberto Rosato e rilanciò giocatori come il portiere Fabio Cudicini e l’ala destra Hamrin. Nel campionato 1967-68 si rivelò l’attaccante Pierino Prati, capocannoniere con quindici reti. Il Milan si aggiudicò lo scudetto.

Il 23 maggio i rossoneri vinsero la Coppa delle Coppe, a Rotterdam, contro l’Amburgo, superato 2-0.

Nel 1969 il Milan conquistò per la seconda volta la Coppa dei Campioni, battendo gli olandesi dell’Ajax per 4-1 alla stadio Bernabéu di Madrid, il 28 maggio. Fu anche l’anno della Coppa Intercontinentale, obiettivo fallito nel 1963 contro il Santos. Gli avversari furono gli argentini dell’Estudiantes della Plata. Il Milan vinse 3-0 l’incontro di andata l’8 ottobre a Milano e soccombette 2-1 a Buenos Aires il 22 ottobre, in un’autentica battaglia che vide i giocatori avversari responsabili di ripetute violenze.

Il Milan concluse al terzo posto il campionato 1969-70, fu secondo nel 1970-71, 1971-72 e 1972-73. Nell’incontro Lazio-Milan del 21 aprile 1973, sul 2-1 per la squadra di casa, l’arbitro Concetto Lo Bello annullò per fuorigioco la rete del pareggio milanista. Espulso dal campo, Rocco si mise polemicamente sull’attenti di fronte all’arbitro siracusano. La squalifica fino al 26 luglio venne poi ridotta di un mese e mezzo.

Il 16 maggio, a Salonicco, il Milan conquistò la Coppa delle Coppe battendo 1-0 gli inglesi del Leeds. Il 20 maggio si disputò l’ultima giornata di campionato con il Milan che, in vantaggio di un punto su Juventus e Lazio, affrontò il Verona allo stadio Bentegodi. La squadra crollò. Sconfitti per 5-3, i rossoneri vennero scavalcati dalla Juventus.

La disfatta segnò per Rocco uno spartiacque. Il tecnico lamentò di avere chiesto invano lo spostamento della partita. S’incrinarono i rapporti con il presidente Albino Buticchi. Il tecnico era a conoscenza dei contatti della società con l’allenatore del Torino, Gustavo Giagnoni. Rocco si dimise il 12 febbraio 1974, dopo un alterco con Buticchi.

Per la stagione successiva accettò l’offerta della Fiorentina, ma non entrò in sintonia con l’ambiente, che lasciò a fine maggio del 1975 con la squadra in ottava posizione. Rivera lo richiamò al Milan nell’estate del 1975 dopo avere vinto la battaglia con Buticchi per il controllo azionario della società. Fu una breve collaborazione come consigliere tecnico. Il nuovo presidente Vittorio Duina lo rivolle nella stagione 1976-77. Dopo l’esonero dell’allenatore Giuseppe Marchioro, Rocco andò in panchina. Il Milan vinse la Coppa Italia battendo l’Inter.

Nel campionato 1977-78 Rocco fu accanto al nuovo allenatore, lo svedese Nils Liedholm. Nel 1978-79 ebbe il ruolo di consigliere del presidente Felice Colombo e di super osservatore.

La sua salute declinò dopo una trasferta a Manchester. I medici diagnosticarono disturbi al fegato e una leggera broncopolmonite.

Morì il 20 febbraio 1979 all’ospedale Maggiore di Trieste.

I funerali si svolsero il 22 febbraio. Venne sepolto nella tomba di famiglia al Campo Terzo del cimitero di Sant’Anna.

Fonte acmilan.com

Treccani.it

Fonti e Bibl.: E. Sasso, R. Mago all’italiana, Roma 1969; E. Lanzotti, 7 anni con N. R., Padova 1982; A. Re David, Padre Paron, Trieste 1984 (San Dorligo della Valle 2012); G. Sadar, El Paron. Vita di N. R., Trieste 1997; G. Garanzini, N. R. La leggenda del paròn, Milano 1999; P. Marcolin, N. R. Ciò, mone, xe solo futbol!, Portogruaro 2000; G. Moroni, Il Paròn. N. R. nelle testimonianze di calciatori, amici, avversari, Milano 2012; I.V. Cavinato, Ze solo fut-bol. Padova ai tempi di Rocco, Lozzo Atestino 2014; G. Barbato, Vinca il migliore? Speriamo di no, Padova 2015.



Nereo Rocco è un sincero amico per Gianni Brera. Nel 1979 il Paron se ne andò e il Grangiuan stese questa bellissima e commovente lettera di addio.

Gianni Brera

È morto Nereo Rocco e io non debbo nemmen pensare di poter piangere. È un diritto, ahimè, che non mi appartiene da tempo. I miei sentimenti non contano. Tanto più sarò suo amico, quanto meglio riuscirò a ricordarmi di lui senza frapporre l’amicizia fra me e il mio lavoro insolente.

“Prepara il coccodrillo”, mi era stato ordinato con presago cinismo. “Un’ostia!”, avevo ruggito, a sorpresa, con la sua stessa voce. Io so che è già morto ma voi non lo dovete sapere: voi dovete aspettare, maledetti, che lo sappiano tutti. Allora mi metterò al carrello, e garantito che saprò battere i polpastrelli senza il minimo groppo in gola.

Così cerco di fare adesso che tutti lo sanno. E se volete capire meglio dirò che avevo già pianto e bestemmiato come voleva la nostra amicizia tutta particolare. Ho qui sott’occhio un cartoncino per auguri con su stampati i nomi di Nereo e Maria Rocco, Trieste, Via M. d’Angeli 28, telefono 791636. La data, Capodanno ’78-’79: la calligrafia piccola e slegata di uno che è stato a scuola ma ci ha la mano troppo tozza per tenere la penna con un minimo di disinvoltura: Gioannin carissimo, grazie per i tuoi fraterni graditi auguri… contracambio con sincero affetto e brindo alle tue fortune purtroppo con l’acqua Fiuggi. Ti prego ricordami alla tua famiglia ancora grazie. Nereo .

Non so di grafologia e ancor meno di acqua Fiuggi. Ma questo suo biglietto era un testamento e io l’ho recepito con dolorosa rabbia. Improvvisamente mi s’è stretto qualcosa nelle viscere, me n’è venuto un disagio che era quasi paura. Allora ho capito che Nereo era morto, e che del suo stesso male potrei morire anch’io, e ho la sfacciata onestà di ammettere che non sapevo se fosse più il dolore o la paura a farmi piangere. “Dobbiamo andarlo a trovare”, m’ha detto un amico. “Ma neanche!”, ho subito reagito in un ringhio. Siamo stati anni senza vederci per rispetto della nostra stessa professione. E quando voleva il caso che ci incontrassimo, dopo il primo impulso al solito fraterno e divertito abbraccio, avvertivamo l’imbarazzo degli amici veri, che la vita ha ormai diviso, ma tradirsi non possono e non vogliono per nessun motivo al mondo.

Però, immancabilmente, ci si metteva a bere con la meditata calma si chi a bere ha imparato non solo per gioia ma anche per condanna ereditaria. E fatalmente ci danneggiavamo l’un con l’altro non potendo mentire. Io raccontavo pari pari tutto quanto a sua volta raccontava. Al diavolo gli interessi, le convenienze, gli obblighi: qui siamo insieme e qui beviamo sentendoci fratelli. Poi, chi vivrà vedrà. Ma alla fine ci coglieva quasi il rimorso di tradirci e tradire. L’uno leggeva negli occhi dell’altro la sconvenienza, il rischio, il pentimento. Ciascuno rientrava berciando nel suo mondo. Brutto mona, co’ se vedemo, finisse sempre mal! Ecco, dicevo: accetterei di andarlo a trovare se potessimo bere come sempre. E lui nel testamento m’ha confidato di essere alla fine, di poter solo brindare con l’acqua Fiuggi. Se per disgrazia lo inducessi a trasgredire, la colpa sarebbe mia. Non voglio rimorsi di questo genere.

Ciao, Nereo, grazie di essermi stato amico, grazie di tante ore e giorni trascorsi insieme. Da oggi ti do per morto e ti piango senza mostrare a nessuno quel che sento. Purtroppo sei l’ennesimo amico che mi lascia. L’istinto bruto sarebbe di insultarti. Pensa cosa si direbbe di noi se lo facessimo: tu qui ridotto all’acqua minerale, io alle invettive del sempiterno goliardo invecchiato lavorando, e solo, ormai, con un fegato come il tuo (ma non è stato lui a tradirti, lo so bene: troppo facile ai filistei consolarsi di averci invidiati: eh, sfido, con quel che hanno bevuto!).

È che il mondo non sa distinguere fra chi beve “per scientiam” e chi per sete banale, o addirittura per vizio Noi eravamo fieri di non avere mai sete e spesso bevevamo per evitare il pericolo di averla. Che fastidiosa noia, dover bere per sete, che banale destino! Les hommes qui ne boivent pas ne sont pas bons. Ciò, Nereo, senti ‘sto vinellin. Aveva magari 14 gradi e Nereo fingeva di esserne atterrito. Poi parlavamo. E non c’era mai nube che ci potesse reggere, per cui tornavamo difilato in terra. E il senso pragmatico di Nereo non era mai affetto da cinismo. Ci sentivamo colmi di rimpianti asburgici, disarmati, o quasi, mit den Italienern. Noi tonti lombardi, voi gnocchi triestin. E un masochistico piacere di sentirci far fessi, però anche ringhiando puntuale disprezzo.

Ironia, sarcasmo, burbera tracotanza. Tasi ti, che ti sè tanto testa de mona che tuti i mesi te perdi sangue del naso! Battute pronte per ogni interlocutore. E il tipico pudore del figlio d’un borghese recessivo. Tanti puffi m’ha lassà me padre… Però te lo confessa senz’ombra di rancore. Scuote il capo, ne ride. Pensa ti che ‘l voleva sonassi ‘l piano. E ti sa il resultà? Che g’ho sonà il triangolo nella banda del Corpo d’Armata. Tutte le domeniche in piazza Unità a Trieste, naturalmente co’ no gh’era partida. Interventi ripetuti (ton tin tin) nell’Arlesiana…

Lezioni di piano, sissignori, e ragioneria con tanta poca voja. Per la Triestina delira Saba poeta, ma dovrebbe mè pare? Ti te zoghi ben e mi te dago ‘l premio. Così andavano le cose: che il premio al figliolo promettente zogador in Triestina lo dava ‘l scior Rock, il figlio d’un viennese scappato a Trieste per amore, drio a un’acrobata o ballerina da circo, pensa ti, e spagnola per soramercà: la mia nona. Lo vedo la primissima volta all’Arena, in un allenamento della nazionale (facciamo uno dei primi anni trenta): sinistri al volo da mortificare un gigante come lui triestin, mi pare Blason. La trionfante salute psicofisica dei giuliani non ancora afflitti da angoscia del domani. Mai dimenticati quei potentissimi tiri a volo di pieno collo, e neanche la rabbia di Blason, che pure acchiappa e raccoglie la palla con una sola delle sue manone.

Del giocatore Nereo Rock più nessuna notizia. In nazionale trova Gioânnin Ferrari e recede come suo padre, già stato ricco venditor de carne. Emigra al Sud e sorride – sempre – ricordando Napoli. Poi, la routine presso a casa, la guerra, l’ennesima liberazione d’Italia e di Trieste. Consigliere comunale con i piedoni tosti per terra. Una seconda famiglia: due bei figlioli che studiano. Il primo gioca anche a calcio: “ma ti no ti sè ‘bastanssa bravo e quindi ti te curi la bottega: nel calcio basto mi”.

Allena con sbalorditivo genio pragmatico. Gli italianuzzi si abbandonano a becera imitazione degli inglesi e lui vuole il metodo mantenendo due terzini centrali. Un giorno ritornerà in Italia, questo suo modulo prudenziale, e si chiamerà Riegel, verrou, catenaccio. Pensa che giri: ma è pur sempre un viennese, Rappan, a sentire e vedere come lui. A pensarci, vi è quasi da piangere, tanto siamo fessi.

Ma Nereo non ha ancora voce. E quando l’Inter gli prende Blason, secondo terzino d’area, lui smania nel vederlo comicamente sacrificato sull’ala. Brutte figure da vergognarsi: la “grosse Berthe” messa a guardia d’un alberello di ciliegio. Poi, qualcuno capisce di rimandarlo al suo posto e l’Inter vince non uno ma due campionati!

Nereo è ancora lontano dalla ribalta principale: invece pontifica Viani, un astuto Porthos senza pudori sociali di sorta: uno che vince a poker, la notte, i soldi per il viaggio domenicale della squadra. Anche Viani capisce che il WM è un lusso proibito, anzi masochistico per noi, e arretra il centravanti sul centravanti avversario. Diviene dunque libero lo stopper in seconda battuta: libero – dico io – da incombenze di marcatura. Tutto il mondo adotta e chiama libero il secondo terzino d’area: in Italia, terra di grandi ingegni, proibito.

Sulla nostra stessa barca sono un po’ tutti gli ex calciatori italiani passati alla tecnica (quelli che hanno studiato, non i muscolari, anche celebri ma fin troppo ignoranti). Dal castello di poppa, tonitruante, Nereo. Il suo pragmatismo sincero diventa taumaturgico. Rigenera vecchie rozze mal capite (come lo stesso Blason), lancia ragazzini veloci e coraggiosi, adatti al contropiede. Nasce allora, invocato, il calcio all’italiana e garantito che il suo più limpido interprete è Nereo. Senza falsa modestia, sono io il teorico. Lottiamo insieme a colpi di risultati e, nella metafora, di sessola e di remi. Le molte brutte figure della nazionale verrebbero subito evitate se i consoli osassero vestire il Padova di azzurro. Ma per ora il catenaccio è il diabbolo, pensa te: e nessuno capisce o vuol capire.

Finisce però che si commuovono anche gli Agnelli: sull’inclita panchina della Juventus, Nereo risparmierebbe alla nazionale dieci anni di umiliazioni cocenti. Niente. Il presidente del Padova teme il linciaggio se molla Rocco ai suoi stessi padroni (vende Fiat). Così Nereo deve attendere di approdare al Milan, dove comanda Viani: ed è un gran brutto vivere. Nereo non conosce astuzie dialettiche di sorta. È un tonto triestin: e quindi non riesce a mentire. Per mi, ‘l calcio xe questo e che no me conti bale! Per fortuna, i risultati fioccano a dispetto d’una cricca conservatrice o conformista o vile: Viani è malato e, invidioso, gli tira contro. Nereo vorrebbe andarsene. Guai al mondo! Rimane e porta il Milan allo scudetto. C’è anche Rivera piccolo, el bambin d’oro (che per il momento, poco correndo e pensando sul gioco, non molto gli piace).

La lotta al WM è già vinta dall’anno del torneo olimpico di Roma. Viani in serpa a tacitare gli scribi, lui in panchina e nello spogliatoio, dove si destreggia come chi sa bene cosa pensa e cosa fa un pedatore di professione. Grosse parole, mai, atteggiamenti furbi, nemmeno. Dalla panchina torna sudato più dei giocatori: e con loro si spoglia e prende la doccia sentendone tutti I discorsi, dei quali puntualmente si serve per governare il timone. Sotto la doccia, il sudore acre dei poveri, le contumelie, le lodi, le reciproche accuse: e la partita interpretata a caldo. Poi con gli anziani, diciamo gli arimanni, si riflette e decide per il meglio.

Poco abile politico, è un grande in spogliatoio, non in sede. Ai presidenti non bacia né vellica niente. Cambia città (e si pente): scopre nuovi Italienern, magari contagiati di vezzi franciosi: così rimpiange i lombardi e torna fra loro per vincere un altro campionato, un’altra Coppa Campioni. Rivera si è fatto uomo e un po’ ne viene plagiato. Rivera sta a Nereo come la callida volpe al toro manso. Ma bello è poterlo sentire figlio, alzare la voce a proteggerlo, lui toro , manso tutto de fora, estroverso, goliardo invecchiato, e torvo solo per gioco, l’altro tutto introverso, compito, abatin. “Xe Rivera la nostra Stalingrado”, si lagna di me Nereo: e si capisce che non può seguirmi neppure quando ho ragione. Rivera è il solo dei suoi che pensi calcio in grande stile: al diavolo se al pensiero non s’accompagna sempre l’azione.

È il suo Prinz Eugen, talvolta addirittura il suo Allah: ed è per sincera amicizia che noi due cerchiamo di non danneggiarci a vicenda, di incontrarci il più raramente possibile: ma quando Franchino Carraro vorrebbe farla a pugni, in Messico, lui gli ingiunge di non sognarselo nemmeno: Gioani ze ‘n amigo: e onesto, salo?, onesto. Pensa che notizia, un bel round di pugilato con il futuro presidente del CONI! Ma per fortuna Nereo ha qualche anno più di noi e di Rivera, al quale dice: se ti te torni in Italia, te rovini. Gli altri anni – gli ultimi – sono di gloria, di fama così scontata da fare, al massimo, invidia. Il vecchio goliardo lotta con acidi urici, trigliceridi e colesterolo. Forse anche il morbus domini lo importuna: e la gotta.

La natia Trieste è diventata per lui un curioso esilio. L’azienda paterna rifiorisce per Bruno; L’altro figliolo è laureato e lavora in farmacia. La pacata ma energica sciora Maria lo assiste e perfino diverte con premure sempre meno fastidiose. In puro triestin mi ripete una saggia massima brianzola: “Ten bona la tô vegia / perchè al moment giust / la te laverà i mudant anca in de l’acqua fregia”. Così lo penso, povero Nereo, convinto di morire, perduto ormai per il calcio, che era la sua vita, il suo lavoro onesto, però non solo, però circondato dai suoi, che gli volevano bene.

Caro vecchio Nereo, se avessi pianto non avrei finito a tempo questo lavoro che l’amicizia, soltanto l’amicizia non mi rende gravoso né ingrato. Il magone mi è venuto quando ho letto la tua ultima lettera. Non è da noi piangere. La tua vita è stata buona. Al tuo ricordo, amico, brinderò come tante volte abbiamo fatto insieme. Addio Nereo, ti sia lieve la terra.

Gianni Brera

 

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