A due settimane dagli attacchi di Parigi, sono in molti a pensare che un’economia di guerra potrebbe persino dare slancio alla ripresa in corso, grazie ad un deciso incremento della spesa governativa di cui farà le spese l’equilibrio dei conti pubblici. A Bruxelles è passata la linea dettata dal presidente francese François Hollande, ovvero che “il patto di sicurezza vince su quello di stabilità”. L’apertura è arrivata dallo stesso presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker che ha decretato: «Considero che i mezzi supplementari non debbano avere lo stesso trattamento, nel patto di stabilità, che ci sta per le spese ordinarie. A spese straordinarie risposta straordinaria». E, ovviamente, questo deve valere “per tutti”.
Alcuni settori, come il turismo e le compagnie aeree, risentiranno negativamente nel medio termine del mutato scenario internazionale. Ma, a quasi quindici anni dagli attacchi alle Torri gemelle, il rischio terrorismo è una variante oramai “incorporata” nei mercati finanziari, quanto meno sul lungo termine. Non è in effetti un caso che la Fed abbia confermato l’imminente rialzo dei tassi entro il primo trimestre del 2016, una mossa che dovrebbe dare un chiaro segnale di stabilità all’economia Usa e sostenere la rivalutazione del biglietto verde. Non è neppure un caso che la Bce prosegua con rinnovato vigore la politica monetaria espansionistica che, grazie con tassi rasoterra e significative iniezioni di liquidità, sta permettendo alle aziende di finanziarsi, mettendo le basi per la ripresa. Non solo. Negli ultimi giorni Mario Draghi, presidente della Bce, ha addirittura dichiarato che l’istituto di Francoforte si prepara, in vista della riunione del 3 dicembre, ad aumentare il programma di quantitative easing attualmente in vigore.
Per l’economista Nouriel Roubini, noto per aver previsto la crisi e per esser piuttosto pessimista sui mercati, se la Bce deciderà di proseguire, o meglio ancora aumentare, gli stimoli di politica monetaria, la minaccia terroristica potrebbe sostanzialmente rilanciare l’economia europea. «Gli attacchi terroristici hanno aumentato la probabilità, già comunque piuttosto forte, che la Bce proceda ad aumentare ulteriormente gli stimoli monetari con il meeting fissato il 3 dicembre», ha dichiarato Howard Archer, capo economista europeo a I.H.S. Global Insight. Già nel recente passato, le banche centrali avevano sostenuto la ripresa successivamente agli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e del 7 luglio 2005 a Londra, quando rispettivamente Fed e Bank of England tagliarono in modo significativo il costo del denaro, mettendo le basi per il rilancio.
Sulla stessa scia Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, ha sottolineato come «la Grande Depressione non sia finita grazie alla vittoria intellettuale degli economisti Keynesiani, … ma con la Seconda Guerra Mondiale che ha consentito ai governi di aumentare la spesa statale a dei livelli in precedenza ritenuti impossibili». Un passato tornato, anche negli ultimi anni, d’attualità quando gli attentati terroristici hanno giustificato la crescita esponenziale della spesa pubblica e, di conseguenza di lavoro, consumi e investimenti. Lo stesso Krugman infatti ha poi ricordato come gli Stati Uniti abbiano visto crescere la spesa per la difesa e la sicurezza di ben due punti percentuali sul Pil dopo gli attacchi alle Torri Gemelle.
Il solo intervento in in Afghanistan, secondo i calcoli del Financial Times, sarebbe costato agli Usa 900 miliardi di dollari (e non è ancora finita visto che il Pentagono ha chiesto uno stanziamento di 120 miliardi per i prossimi 4 anni). Costi simili per l’Iraq. Le cifre non tengono conto di altre spese accessorie come quelli necessari per rafforzare le procedure di sicurezza calcolati in 27 miliardi di dollari. Secondo i calcoli di Linda Bilmes, economista di Harvard, il solo post 11 settembre, tra interventi all’estero e in patria, sarebbe costato agli sua tra i 4 e i 6 trilioni di dollari.
Secondo le stime pubblicate dall’Institute for Economics and Peace, l’Italia destina il 3% del Pil nazionale alle cosiddette spese di contenimento, ovvero alle attività svolte per prevenire atti violenti. Poco più di 67 miliardi di dollari all’anno. Decisamente poco rispetto a 2 trilioni di dollari dagli Usa (pari al 12% del Pil), ma anche ai 171 miliardi di risorse destinate alla prevenzione dalla Germania (pari al 5% del Pil) e ai 140 miliardi del Regno Unito (pari al 6% del Pil). Al di là delle minacce dirette dell’Isis a Roma e di eventuali interventi militari, è evidente a tutti come, anche per la sola prevenzione, occorra alzare l’asticella e utilizzare maggior attenzione nelle spese effettuate.
In Italia, mancano agenti sul territorio e molti luoghi simbolo della nostra cultura sono privi di una adeguata custodia. Lo dimostra anche il furto delle 17 maggior opere d’arte custodite a Castel Vecchio, museo simbolo di Verona, avvenuto pochi giorni fa proprio mentre, almeno in teoria, si sarebbero dovute alzare le soglie di sicurezza sulle icone tricolori a rischio di attacco, dal Duomo di Milano al Colosseo. Daniele Tissone, segretario generale del Silp-Cgil, uno dei sindacati dei lavoratori della polizia di Stato, ha lamentato il taglio delle risorse. «L’attuale legge di Bilancio si decurtano ulteriori 500 milioni di euro relativamente al concorso delle forze armate in misure di sicurezza e ordine pubblico nonché per gli uffici di coordinamento delle forze di polizia», ha dichiarato Tissone a Il Centro, puntando il dito contro un «parco auto disastroso, giubbotti e caschi vecchi e in scadenza, ogni dieci anni i giubbotti devono essere sostituiti perché si deteriorano con l’uso, gli ultimi bandi risalirebbero al 2004-05». Nonostante il Giubileo sia ormai alle porte e le minacce dei terroristi dirette proprio alla Capitale, a Roma c’è «un poliziotto ogni mille abitanti, a Ostia uno ogni 2.000, al Casilino uno ogni 2.500».
Di quanto dovrebbero aumentare le risorse destinate alla sicurezza e alla prevenzione? Dipende dalla flessibilità concessa da Bruxelles sul patto di stabilità. Una cosa è certa: a beneficiarne saranno prima di tutto le aziende attive nella difesa, come Finmeccanica ovviamente, ma anche tutte quelle società che potrebbero concorrere ai bandi pubblici per rinnovare abbigliamento, parco macchine (Fca innanzitutto) e armi in mano alle forze dell’ordine italiane.
A livello internazionale lo scenario attuale dovrebbe favorire i giganti della difesa mondiale: Lockheed Martin, Bae Systems, Textron, Eads, Northrop Grumman, Raytheon, Rolls-Royce (il 15% deriva dal settore difesa), Thales. Acquisteranno sempre poi maggior peso infine tutte le attività attinenti alla cyber security in rete e alla sicurezza nelle telecomunicazione. Sarà infatti ritenuto sempre più di vitale importanza preservare la sicurezza delle comunicazioni in rete e, possibilmente, penetrare nelle comunicazioni in rete dei terroristi. A Piazza affari potrebbero essere, anche se solo indirettamente coinvolte, Telecom Italia e Stm.
Nel panorama internazionale invece non mancano società quotate specializzate nel settore della cyber security, un mercato che, secondo la società di ricerca Gartner, potrebbe arrivare a valere 101 miliardi di dollari di spesa annui entro il 2018, dagli attuali 77 miliardi. Tra i leader del settore ci sono Cisco Systems e Sophos Group, ma non mancano società più piccole da tenere d’occhio come le inglesi Falanx Group, Ncc Group, Corero, o le americane FireEye, Fortinet, Palo Alto Networks.
Potrebbero inoltre beneficiare di un forte aumento del portafoglio ordini le società attive nella sicurezza aeroportuale: ovvero le imprese che costruiscono la strumentazione di rilevamento di esplosivi o sostanze pericolose come l’americana General Electric (grazie anche al rilevante know how di InVision Tecnologies acquisita dieci anni fa), l’inglese Smiths Groups e la francese Safran.
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