“Pseudoscienza”. Questo concetto – così esposto alla tentazione anacronistica – riassume spesso, nel dibattito pubblico italiano, la reazione intellettuale più diffusa di fronte al tema degli esperimenti medici nazisti. La categoria non appare soltanto rassicurante, ma gode anche, nel caso specifico, di un illustre passato. Ad adottarla furono infatti gli stessi giudici del Processo ai medici di Norimberga del 1946-47, interessati soprattutto alla ricostruzione delle gerarchie politico-amministrative che collegavano verticalmente gli imputati agli organi del potere nazista.
Negli ultimi trent’anni, la storiografia sulla medicina nazista ha contribuito a smantellare, tassello dopo tassello, l’approccio “pseudoscientifico”. Non per normalizzare né tantomeno per giustificare, quanto per ricostruire una realtà ben più drammatica di qualsiasi descrizione demonizzante: il processo di nazificazione della ricerca medica non fu il prodotto della follia criminale di pochi esponenti delle SS, emarginati in ambito accademico, ma fu il risultato di una sistematica – ancorché caotica e frammentaria – mobilitazione a sostegno del progetto di ridefinizione razziale dello spazio tedesco ed europeo: un progetto ampiamente condiviso e razionalmente perseguito dai dipartimenti universitari, dall’industria biomedica e dalle strutture di ricerca del Terzo Reich.
L’editoria italiana è rimasta in larga parte insensibile a questa svolta storiografica: di fatto gli unici saggi disponibili in italiano sul tema rimangono ancor oggi I medici nazisti di Robert J. Lifton e Lo Stato razziale di Burleigh e Wippermann, entrambi pubblicati da Rizzoli, rispettivamente nel 1988 e nel 1992. Pietre miliari, senza dubbio, ma ormai piuttosto datate.In questo contesto di intesto sviluppo storiografico, il caso degli esperimenti medici era rimasto singolarmente ai margini, trattato come un atroce corollario delle politiche genocidiarie naziste, in assenza di un’indagine sistematica che consentisse di rispondere ad alcuni quesiti fondamentali: quali erano le pratiche, gli obiettivi, l’estensione e i luoghi degli esperimenti medici nazisti ? Da chi furono gestiti ? Chi e quante furono le vittime ? Secondo quali criteri vennero selezionate ? Quale fu la risposta agli abusi subiti ?
La pubblicazione di Victims and Survivors of Nazi Human Experiments: Science and Suffering in the Holocaust di Paul J. Weindling ha colmato, lo scorso dicembre, questo vuoto. Storico della medicina presso la Oxford Brookes University, Weindling ha coordinato, negli ultimi sette anni, insieme a Marius Turda, un progetto di ricerca finanziato dall’Art and Humanities Research Council, dal Wellcome Trust e dalla Conference for Jewish Material Claims Against Germany, con l’obiettivo di produrre uno studio empirico, a largo raggio, della ricerca medica coercitiva nazista: le sue strutture, i suoi perpretatori, le sue vittime. Una ricerca quantitativa di ampio respiro internazionale, basata su una pluralità di fonti tra loro connesse. Le statistiche e i grafici che formano l’appendice di Victims and Survivors of Nazi Human Experiments rendono conto del vasto impianto documentario dello studio, fornendo alcuni punti fermi: numero delle vittime e composizione per genere, età, nazionalità, etnia, religione; numero degli esperimenti letali e cause del decesso; distribuzione cronologica degli esperimenti.
Ma ancora più interessante e innovativo è il quadro interpretativo supportato da questi dati. Tre elementi meritano, a mio parere, di essere sottolineati. Innanzitutto, la sperimentazione medica coercitiva nazista viene descritta qui per la prima volta come un processo dotato di una sua specifica dinamica interna, di crescente radicalizzazione, non limitato agli sviluppi del sistema concentrazionario negli anni della seconda guerra mondiale, ma esteso lungo l’intero arco di azione del Terzo Reich, dal 1933 al 1945. La sterilizzazione forzata (dal 1933) e la cosiddetta “eutanasia” nazista (dal 1939) offrirono a una comunità scientifica profondamente nazificata sul piano politico-ideologico nuove opportunità di ricerca nel campo dell’eredità patologica, dell’anatomia, della psichiatria, della ginecologia, dell’endocrinologia, innescando un meccanismo destinato a proseguire, radicalizzandosi, fino al crollo del regime nazista. Sulle macerie del Terzo Reich, e proprio mentre Heinrich Himmler ordinava di cancellare qualsiasi traccia degli esperimenti medici compiuti, i ricercatori continuarono ad agire in senso opposto, sfruttando fino all’ultimo quel “laboratorio umano” al fine di pubblicare articoli e di concludere tesi di Habilitation su cui avrebbero fondato le loro carriere nel dopoguerra.
La complessa rete di relazioni accademiche, politiche e industriali che accompagnò lo sviluppo della sperimentazione medica nazista rappresenta il secondo aspetto importante dello studio di Weindling. Gli esperimenti medici nazisti non furono l’opera perversa di un pugno di criminali sadici, quanto piuttosto il risultato di un sofisticato – e spesso caotico – intreccio di istituzioni accademiche e di centri di potere politico-militare, disposti a utilizzare soggetti diversi (pazienti psichiatrici, lavoratori coatti, prigionieri di guerra, deportati politici e razziali) come “materiale scientifico”, come immensa risorsa sperimentale. Da questo punto di vista, Himmler rivestì indubbiamente un ruolo cruciale, tra il 1941 e il 1944, nella radicalizzazione della sperimentazione medica coercitiva, utilizzando indiscriminatamente le strutture del sistema concentrazionario per estendere l’egemonia delle SS sull’università (soprattutto le facoltà di medicina), sulle strutture della ricerca (Deutsche Forschungsgemeinschaft, Kaiser Wilhelm Gesellschaft, ecc.), sulla produzione farmaceutica. Sarebbe un errore tuttavia descrivere la ricerca medica coercitiva nazista come il frutto di un’azione monopolizzata centralmente dalle SS. Lo sfruttamento delle “risorse sperimentali” offerte dal sistema concentrazionario e dallo stesso contesto bellico non coinvolse infatti soltanto le SS, ma una pluralità di strutture del partito nazista, dello Stato, dell’esercito, dell’industria chimica e farmaceutica. E la stessa organizzazione SS, in questo ambito, era a sua volta divisa da una costante competizione tra enti diversi, quali la Ahnenerbe di Wolfram Sievers, l’Istituto di igiene delle Waffen-SS diretto da Joachim Mrugowski, l’“Ufficio amministrativo centrale delle SS” (WVHA) coordinato da Oswald Pohl. La programmazione degli esperimenti medici dipendeva, inoltre, in misura significativa, dal largo margine di autonomia di cui godevano i singoli ricercatori, secondo una logica bottom-up che muoveva dai singoli programmi di ricerca sperimentali per giungere alla successiva – e, per altro, non sempre necessaria – legittimazione politica.
Infine, un terzo aspetto rilevante di Victims and Survivors of Nazi Human Experiments è dato dalla voce delle vittime. La narrazione dei sopravvissuti, l’intreccio tra le testimonianze e la documentazione d’archivio, la memoria del dolore e della disumanizzazione, la ricostruzione delle strategie di resistenza e di sabotaggio consentono di superare definitivamente un approccio storiografico che a lungo ha dimenticato o considerato passivamente questo universo di uomini, donne e bambini. In tale ambito, i vuoti da colmare rimangono consistenti. Regolamentazioni archivistiche restrittive non permettono ancora, in molti casi, di dare un nome e un cognome alle vittime degli esperimenti medici nazisti, ostacolando in tal modo il controllo incrociato delle fonti e l’elaborazione di un database esaustivo. La situazione rasenta il paradosso: quegli stessi vincoli di privacy e di consenso informato codificati proprio dal Processo ai medici di Norimberga impediscono infatti – nella rigida applicazione fornita da talune autorità archivistiche tedesche – la restituzione dell’identità storica delle vittime, condizione fondamentale per un’adeguata politica di riparazioni.
Evitare pertanto categorie vaghe e assolutorie come quelle di “pseudoscienza” e radicare invece gli esperimenti medici nazisti nel contesto – scientifico, razionale – della medicina nazista, non consente soltanto di definire puntualmente il quadro culturale, politico e sociale che li rese possibili, ma rappresenta anche l’unica via percorribile per accertare responsabilità e coinvolgimenti, e per rendere giustizia a persone – e famiglie – relegate per troppo tempo nell’assoluto anonimato.
All’inizio degli anni novanta, i laboratori anatomici e neurologici tedeschi e austriaci “scoprirono” di aver utilizzato fino a quel momento campioni di tessuti di provenienza nazista. La decisione che prevalse all’indomani dello scandalo e del dibattito pubblico che seguì – quella di distruggere i reperti, senza provvedere alla loro identificazione – evidenzia bene rischi e problemi che potrebbero ripresentarsi ancor oggi o nei prossimi anni.
La memoria, verrebbe da dire in conclusione, può essere salvaguardata soltanto radicandola nella ricerca storiografica solida ed empiricamente fondata. Non con generici appelli e vuote parole d’ordine.
(L’articolo anticipa una recensione che verrà pubblicata su L’Indice dei Libri del Mese di febbraio)
Nella foto in apertura, il fisiologo Erns Holzloehner (a sinistra) e i due assistenti, Sigmud Rascher (al centro) ed Erich Finke (probabilmente il terzo uomo con il termometro, a
destra) conducono un esperimento sull’ipotermia nel campo di concentramento di Dachau (settembre 1942)
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Per me sempre più Demoni che scienziati. comunque bel pezzo.