Da eccellenza a femminismo, ecco le parole da buttare per il 2015
Si dice che a Capodanno bisogna liberarsi di qualcosa di vecchio, magari oggetti che non ci piacciono o non servono più. È una sorta di rito scaramantico. E se al posto degli oggetti ci liberassimo di qualche parola? Ecco un elenco del tutto personale (con qualche prezioso suggerimento).
ECCELLENZA: basta con la retorica dell’eccellenza, non se può più. Viene riproposta ovunque: in campo medico, professionale e persino scolastico. È rilanciata in modo martellante dalla pubblicità con slogan tipo “life is now” o “tutto intorno a te”. L’eccellenza è un idolo, un mostro vorace che ha come parola d’ordine “sempre di più, sempre meglio”. Nessuno di noi è eccellente. Studiare «soltanto», ad esempio, basta a comprendere un argomento ma non a diventare lo “studente dell’anno”. Il mito dell’eccellenza innesca competizioni per diventare “il più bravo”, “il migliore di tutti”, “il più forte” in una gara che alla fine avvilisce ed è foriera di invidie e conflitti. Perché è chiaro, no? Se voglio essere il manager o lo studente “dell’anno” devo fare meglio del mio collega e cercare di superarlo. Con tutti i mezzi possibili, leciti o no. L’uomo non è chiamato a oltrepassare la sua finitezza ma ad abitarla.
DIRITTI (CIVILI): se esistono diritti civili, esisteranno anche diritti incivili? E quali sarebbero?
I diritti civili, sempre magnificati e propagandati dal mainstream, hanno una costante: non tengono mai conto del diritto dell’altro, solitamente debole e non in grado di difendersi da sé. Il diritto di vivere, per esempio, di avere un padre e una madre riconoscibili, di essere generato e chiamato alla vita per amore e non per soddisfare il mio desiderio, spesso narcisistico, di genitorialità (vedi sotto).
GENITORIALITÀ: da cancellare in fretta, specie se legata, come accade sempre più spesso, alla parola “progetto”. Ma la genitorialità si progetta? Dove, come? Affittare l’utero, dietro adeguato compenso economico va da sé, di una donna povera dell’Ucraina o dell’India è un “progetto di genitorialità”? Farsi fecondare con il seme di uno sconosciuto che poi sparisce è “genitorialità”? Scegliere il colore degli occhi e dei capelli del figlio come i mobili all’Ikea è “un progetto di genitorialità”? Un figlio non appartiene forse all’ordine del dono e dell’imprevedibile?
BELFIE: è l’autoscatto che immortala al posto del viso il lato b. Parola da buttare subito dalla finestra perché ha alla base un’idea un po’ strana. Che il corpo umano – nella sua totalità unificata di corpo e anima – possa essere ridotto a pezzetti, al pari degli ingranaggi di una macchina. E poi, è una parola che finisce per identificare la parte (il lato b) per il tutto. Noi non abbiamo un corpo, siamo un corpo. Succede anche nel business delle tecnoscienze: prendere parti del corpo (utero, seme, etc.) e farne commercio. Quel geniaccio di Nietzsche diceva che il cristianesimo disprezza, condanna e umilia il corpo. Difficile dargli ragione: una religione che ha come specialità della casa incarnazione e resurrezione dei corpi compie un’esaltazione del corpo senza precedenti. Come diceva la pubblicità: cosa vuoi di più dalla vita?
CRISI: è un po’ come il finocchio che nelle osterie medievali veniva servito insieme al vino per mascherarne i cattivi odori e il sapore pessimo. È una parola passepartout utilizzata per coprire mediocrità e inefficienze, incapacità e miserie. C’è il politico che non sa amministrare e dice che è colpa della crisi, il tizio che non ha voglia di lavorare e dice che è colpa della crisi, il prete che non sa appassionare nessuno al Vangelo e dice che è colpa della crisi, nella variante “secolarizzazione-mancanza di valori-ateismo strisciante”. Per non parlare degli apocalittici che fanno discorsi del tipo: “Non ci sono più valori, tutto è perduto”. Discorsi che si fanno da quando esiste il mondo, cioè da sempre. Prendete le satire di Giovenale, 65 d.C., e troverete lamentele sull’assenza di un modello educativo rigoroso, della mancanza di autorità, del carattere ribelle dei figli e dello stato di decadimento della società. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole. L’abuso della parola crisi, soprattutto nella variante apocalittica, non solo è snervante: è falso. Come ha scritto magnificamente Jean-Claude Guillebaud, «non viviamo un disastro, bensì una mutazione. Un momento assiale, cioè un periodo in cui l’umanità nel suo insieme cambia era».
PRIVACY: è osannata da tutte le parti, c’è un Garante che dovrebbe controllare se la applichiamo ma non se la fila più nessuno. Le bacheche dei social network grondano di attentati alla privacy, dal tizio che riesce a portare a cena finalmente una ragazza e non ha niente meglio da fare che fotografare il piatto di pasta e metterlo su Facebook a quello che pubblica le foto del bagnetto del bebè. E se la buttassimo via come buon auspicio per ritrovare un po’ di privacy (vera) nel 2015?
FEMMINISMO: Time magazine ci ha provato inserendola in un sondaggio per i lettori sulle parole che non vorrebbero più sentire nel 2015. Poi ha fatto marcia indietro. Esiste ancora il femminismo? Cosa fa? Cosa pensa, ad esempio, della maternità surrogata, detta anche «utero in affitto »? La riduzione del corpo della donna a mero strumento per soddisfare i desideri di coppie ricche e annoiate non è un buon motivo per scendere in piazza e dare battaglia? Il fatto che il potere della donna di procreare e dare la vita sia messo in vendita con tanto di tariffe non basta a mobilitarsi? Dallo slogan sessantottino «l’utero è mio e lo gestisco io» alla realtà di oggi: l’utero è del mercato e lo gestisce lui.
VALORI: parola abusatissima. È particolarmente indigesta quando è associata alla parola “crisi”. La crisi dei valori non esiste semplicemente perché non esiste un uomo senza valori e ogni epoca, sistema educativo, discorso pubblico propone dei valori. Il problema sta sempre nel rapporto tra valori. Molti di questi sono idoli e hanno il loro fascino.
Un commento
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Interessante articolo. Ha davvero acceso in me il desiderio di condividere con lei le mie perplessità. Mi crea dubbi morali infatti l’idea che la maggior parte dei termini che lei vuole archiviare possano essere ricondotti al desiderio di insegnare alle donne come essere tali. Niente più “utero in affitto”, niente più figli non riconosciuti, niente più foto al proprio sedere o al piatto di pasta. Ma se speriamo che una ragazza smetta di mettere in mostra parti del proprio corpo delle quali va orgogliosa, possiamo anche pensare di dotare l’intero universo femminile di burqa così da non dover più essere sottoposti alla visione di tale mercificazione. Capisce di certo che, portare all’estremo il desiderio di non vedere donne che autonomamente mettono in mostra parti di se, non può avere altro sbocco se non la censura totale del corpo femminile. Quello che dobbiamo sperare di non vedere mai più, non è il belfie (autonomo questo lo è per definizione), è il programma domenicale nel quale una donna lavora solo a condizione di presentarsi svestita e trattata alla stregua di un pezzo ci carne in macelleria, o come un suppellettile se le va di lusso. O il dirigente d’azienda che assume una ragazza solo in cambio di prestazioni sessuali, o i CDA aziendali senza donne ( a tal proposito http://www.linkiesta.it/donne-cda ). Dobbiamo sperare che scompaia la parola “sfruttamento”, di quell’uomo che in una redazione di giornale, davanti a un computer o in uno studio televisivo, trae vantaggio dal corpo di una donna sfruttata per il suo apparire ( cfr. http://www.youtube.com/watch?v=EBcLjf4tD4E ). Speravo fosse passato il momento siamo eravamo noi “maschi” ad impartire regole comportamentali elevati su un pulpito morale che di certo non ci siamo guadagnati. Non tutti gli uteri in affitto sono di donne bisognose che provano a “soddisfare i desideri di coppie ricche e annoiate”. Ci sono, in questo caso, sfumature che sarebbe davvero miope non cercare di approfondire, un po’ come quelle che stanno tra il Belfie e i programmi di Barbara d’ Urso.