Ambiente
Senza un vero dibattito sulla cultura, il Recovery Art sarà fuffa
Lo scorso 29 aprile il governo guidato da Mario Draghi ha presentato il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ossia la strategia per spendere i finanziamenti che arriveranno dall’Unione Europea. Il documento è stato accolto positivamente dalla stampa generalista, perché permetterà di ricevere 221,1 miliardi di euro e probabilmente anche di recuperare entro il 2023 i posti di lavoro persi a causa del Covid, che a oggi sono già 767mila e che con ogni probabilità aumenteranno quando il governo deciderà di sbloccare il divieto di licenziamento.
In tutta Europa, secondo quanto si legge nel report Io sono cultura a cura di Fondazione Symbola, il comparto culturale ha perso oltre il 30% del proprio volume d’affari, con settori come quello musicale e quello delle arti performative che denunciano una contrazione pari rispettivamente al 75% e al 90%. In Italia, come certifica l’Istat, metà dell’occupazione persa è nei settori della cultura e del turismo, e sono proprio questi lavoratori ad avere più perplessità rispetto al piano presentato, che stabilisce di destinare solo il 2,7% delle risorse a questi ambiti (Recovery Art), nonostante il ministro competente, Dario Franceschini, assicuri che “la cultura guiderà la ripartenza del paese”.
I fondi del PNRR per la cultura sono indirizzati soprattutto ai cosiddetti “grandi attrattori culturali” (14 in totale, tra cui la Biennale di Venezia), al rilancio dei borghi, alla sicurezza antisismica dei luoghi di culto, alla digitalizzazione, alla creatività e al potenziamento di Cinecittà, per un totale complessivo di 6,675 miliardi. Molti operatori del settore, però, considerano questa cifra esigua e criticano la distribuzione dei fondi. Cinque associazioni – Italia Nostra, Associazione Bianchi Bandinelli, ANAI Associazione Nazionale Archivistica Italiana, Emergenza Cultura – in difesa dell’articolo 9, Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali – in particolare, giudicano “ancillare” il ruolo che i beni e le attività culturali assumono rispetto a settori collaterali come il turismo e l’edilizia e sottolineano come i fondi vadano a pochi siti e soggetti, invece che a biblioteche, archivi (compresi unicamente alla voce “digitalizzazione”), siti archeologici e musei minori. “Non vengono neppure intaccati i problemi del settore”, scrivono, “fatti di assenza di pianificazione e fondi per la gestione ordinaria, carenza di personale, lavoro sfruttato e povero, e costante esternalizzazione dei servizi e degli introiti culturali, che è un costo per lo Stato e abbassa i salari: tutti i problemi che gli addetti ai lavori segnalano da anni […] Interi settori d’intervento sono completamente assenti, a partire dalle risorse umane”.
Se è vero che non abbiamo mai avuto così tanti soldi a disposizione, il rischio è quello di dilapidarli. Sarebbe auspicabile il coinvolgimento dell’associazionismo critico nella creazione di tavoli tematici che si occupino delle singole voci di spesa, ma il tre volte ministro Franceschini non si è quasi mai reso disponibile al dialogo, o evidentemente non abbastanza per poter comprendere le ragioni delle proteste in corso da più di un anno – dunque molto prima che il PNRR fosse ideato. Proteste dovute soprattutto al fatto che bonus e ristori sono arrivati solo dopo mesi di crisi e che con i fondi statali non sono ad oggi previsti sussidi. Ad esempio, non ne sono previsti per dare ai musei quanto serve per produrre nuove mostre di ricerca (l’opposto delle cosiddette mostre-blockbuster); e sia nel caso dei musei che della distribuzione cinematografica il governo ha ristorato con criteri che sono stati ritenuti del tutto inappropriati dai destinatari.
Un esempio recente è il Decreto Finestre, che ha irritato gli esercenti cinematografici perché, pur essendo uno dei primi provvedimenti utili per evitare che un “eccesso di streaming” porti alla chiusura delle sale, non tutela abbastanza i film italiani, e in poco tempo è stato ritirato. Tutte queste scelte, se considerate nella loro complessità, non sono che una conseguenza della mancata considerazione riservata agli attori in campo, secondo i quali l’intervento dello Stato è sempre di carattere emergenziale, privo di un ampio respiro che possa ridurre la precarietà.
Serve innanzitutto un piano occupazionale: “Quale idea di lavoro ha il Ministero?” è la domanda che ricorre nel corso delle iniziative promosse da realtà come Art Workers Italia, Professionisti spettacolo e cultura – Emergenza Continua, Mi riconosci? e negli articoli di testate specializzate come EmergenzaCultura.org. Nell’ultimo anno, pur non potendosi incontrare fisicamente, gli attivisti culturali hanno elaborato proposte che la politica dovrebbe considerare. Al di là delle specificità delle rispettive professioni, nei loro documenti ci sono rivendicazioni comuni: regolamentazione dei rapporti di lavoro, riforma del settore, retribuzione equa, rifiuto del lavoro non retribuito e della formazione a carico del lavoratore, fine del gender pay gap, chiarezza dei profili professionali, accessibilità del patrimonio culturale, interventi in tema di salute e sicurezza.
La parola “lavoro”, però, non ricorre nemmeno una volta nel comunicato con cui il Ministero ha elencato le misure previste, mentre a ripetersi è un’insostenibile retorica su pochi temi che non vengono mai davvero sviscerati. Dura a morire è, ad esempio, la favola della valorizzazione dei borghi antichi, meglio ancora se “borghi-fantasma”. Questi comuni, certamente affascinanti e meritevoli di cura, per ripopolarsi e rilanciare la propria economia non hanno bisogno di una narrazione stucchevole e lontana dalla realtà come quella del ministro, il quale in più di un’intervista rilasciata a partire dal 2017 ha evitato di spiegare come spesso questi siano situati in luoghi difficilmente raggiungibili, costruendo un immaginario basato su parole in libertà come “hotel diffusi, cammini, ciclabili, ferrovie storiche, cibo, natura, arte”, senza mai fornire un’indicazione precisa di come poter tradurre tanta poesia in realtà.
Lo spiega bene invece Montedoro, il film di Antonello Faretta girato nel paese abbandonato di Craco, in provincia di Matera: pur trovandosi a pochi chilometri dalla città che è stata Capitale della cultura nel 2019, pur essendo il set perfetto per film recenti – come Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo – a Craco non bastano le dichiarazioni propagandistiche per fare quel salto che il Ministro spaccia per certo. Ci vorrebbe piuttosto, un piano di comunicazione mirato, come dimostrano indagini condotte da Semrush, Marketing01, Bem Research, secondo cui è solo una narrazione veritiera del territorio, dei suoi servizi e della sua mobilità a rendere possibile il processo di promozione turistica. E pensare che in quel periodo della sua vita in cui Franceschini non era ministro rilasciava dichiarazioni quali “il Mezzogiorno d’Italia potrebbe diventare la California d’Europa, il problema è di scelte politiche”.
E poi ci sono luoghi, su tutti Firenze e Venezia, che hanno il problema opposto, ossia l’overtourism (“l’impatto negativo che il turismo, all’interno di una destinazione o in parte di essa, ha sulla qualità di vita percepita dei residenti e/o sull’esperienza del visitatore”), anche a causa dell’abitudine a investire enormi cifre sui grandi attrattori culturali. Se però la classe dirigente può procedere con una narrazione sfalsata in tema di cultura e turismo è perché oggi in Italia non esiste un vero dibattito sui beni e sulle politiche culturali che sappia andare in profondità: questi non trovano una collocazione vera e propria in televisione e i quotidiani ne trattano solo superficialmente Perciò per ascoltare un confronto serio è necessario spegnere la tv e frequentare i luoghi della cultura, i dibattiti, le conferenze, le tavole rotonde e le assemblee.
Nonostante in Italia risieda una parte considerevole del patrimonio artistico mondiale (il 6% circa), a questo non corrisponde una vera educazione all’arte e una frequentazione assidua dei siti culturali. Inoltre, un problema che viene costantemente ignorato è quello dell’accessibilità: molte strutture espositive hanno barriere fisiche e sensoriali. Solo la metà (53%) è attrezzata con rampe, bagni ed elevatori per le persone con ridotta capacità motoria e solo il 12% offre percorsi tattili e materiali informativi sensoriali per ipovedenti e non vedenti.
I media affrontano queste problematiche solo in occasione della pubblicazioni dei report di Istat, Symbola o Federculture, fornendo i dati e senza includere nelle proprie redazioni degli esperti in materia. I quali, se coinvolti, ottengono uno spazio limitato da talk show, che rimane comunque molto di più di quanto venga concesso a soggetti meno privilegiati, ma altrettanto competenti. Ne è una dimostrazione l’incapacità della maggior parte dei gruppi editoriali di affrontare una questione come quella della nascita della piattaforma di streaming Itsart, voluta da Franceschini, il cui debutto è stato infine annunciato per il 31 maggio. La tanto sbandierata “Netflix della cultura italiana” esordirà senza che sia stato lanciato un bando pubblico, senza chiarimenti rispetto alla configurazione che assumerà, senza un confronto aperto con le associazioni di categoria, senza che i termini contrattuali per gli artisti coinvolti siano stati resi pubblici, senza un investimento di denaro pubblico che possa dirsi congruo. A parte qualche sporadico appello e articolo, per la maggior parte degli italiani Itsart è un fatto assodato i cui contorni rimarranno serenamente un mistero. È il solito, vecchio problema dei media che ritengono di fare informazione senza mai coinvolgere, o ammettendo in minima parte, i soggetti di cui si parla, come accade per moltissime altre questioni. Non stupiamoci allora se gli italiani accettano pedissequamente la carenza di servizi e non contestano fenomeni come la gentrificazione, l’overtourism, le esternalizzazioni, le privatizzazioni o se non sanno spiegare come vengono finanziati i teatri.
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