Da mesi il Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini prometteva una «Netflix della cultura»: si era fatto ospitare un po’ ovunque per convincere della bontà dell’operazione, ma aveva dovuto incassare il rifiuto della Rai, che probabilmente non ha trovato la proposta allettante dal punto di vista economico, non potendo, diversamente da altri, offrire contenuti a pagamento. Allora il Ministro si è rivolto all’imprenditore di centro-destra Stefano Parisi, ex direttore generale Confindustria. Avversario sconfitto da Beppe Sala per la poltrona di sindaco, poi avversario sconfitto da Nicola Zingaretti per la presidenza della Regione Lazio, con diverse esperienze nei ministeri alle spalle, Parisi non è un esperto d’arte, ma ha co-fondato Chili, una piattaforma di video on demand inaugurata nel 2012 e che non ha mai eguagliato il successo di Netflix, pur avendo tra gli investitori la Lavazza, come spalla il magazine Hotcorn e avendo acquisito l’app Cinetrailer per rafforzarsi. Dato più rilevante, due major possiedono una quota di Chili: Sony e 20th Century Fox, lasciando intendere che la piattaforma potrebbe diventare sempre meno italiana. Per Franceschini non dev’essere stato difficile convincerlo: Chili non ha mai fatto un salto di qualità e il suo bilancio è ogni anno in perdita, ma ora può ricevere, stando a quanto riportato dal quotidiano Italia Oggi, dieci milioni di euro da parte del MiBACT, grazie a fondi stornati dal Recovery Fund, i cui contorni non sono ancora stati definiti. La società che guiderà le operazioni della nuova sotto-piattaforma cultura sarà per metà pubblica e per metà privata. Sarà infatti controllata al 51% da Cassa Depositi e Prestiti, la società per azioni controllata per circa l’83% da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze e per circa il 16% da grandi e piccole banche. Cassa Depositi e Prestiti verserà nove milioni di euro, mentre il 49% sarà controllato da Chili. Per tutto questo, non c’è stato alcun bando, alcuna trasparenza, come spesso accade in Italia. Non si conoscono i dettagli dell’operazione. Anzi, il Ministro rinnova la sua ossessione digitale facendo pubblicare nel sito del Mibact un comunicato in cui dice che l’Europa dovrebbe fare lo stesso. Magari in Europa le regole saranno diverse, ma qui è semplicemente andata così. Ci sarà chi accuserà la Rai di non aver salvato la situazione e chi non dirà nulla sperando di poter lavorare con la nuova piattaforma. Che non verrà ovviamente più chiamata Netflix della cultura, ma magari Very Italia, in omaggio quel Very Bello dalla vita brevissima con cui Franceschini ci aveva promesso di salvare il turismo italiano. Promises, promises.
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