Beni culturali

Le biblioteche restano chiuse senza un motivo

13 Luglio 2020

Che fine hanno fatto i bibliotecari? Perché le biblioteche pubbliche sono diventate più infettive dei mezzi pubblici e dei bar? Come si può consultare un libro raro in smartworking? E altri interrogativi senza risposta.

Secondo il DPCM del 17 maggio 2020 con le misure relative a Fase 2 (nell’ultima pagina dell’ultimo allegato), le biblioteche potevano riaprire già dal 18 maggio rispettando alcune norme di sicurezza e distanziamento, peraltro già largamente intuibili da giorni, anzi da settimane, in cui si discuteva di separatori in plexiglass nei ristoranti e persino nelle spiagge.
Siamo a luglio e ormai tutte le attività essenziali e inessenziali hanno riaperto, sulle spiagge per fortuna non c’è il plexiglass e i bagnini si limitano a misurare le distanze tra le sdraio; gli adolescenti (e non) hanno ripreso a baciarsi e i ristoranti sono pieni (cit.) ma in biblioteca, uno dei posti dove il distanziamento sociale tradizionalmente raggiunge livelli addirittura psicopatici, non si può lavorare.

Sale lettura chiuse oppure a servizio limitato e con orario ridottissimo, archivi come chimere, sistemi di prenotazione non funzionanti. Per esempio: già il 25 maggio il Sistema bibliotecario milanese ha inviato mail e sms ai suoi utenti con il numero da chiamare per appuntamento per la restituzione dei libri, al quale però rispondeva una signora molto divertita comunicando che nessuno le aveva detto che rientrasse nelle sue mansioni gestire questa agenda.
Oppure: l’Archivio di Stato di Venezia ha riaperto ma solo su appuntamento individuale; e dove normalmente siedono settantadue persone ora ce ne possono stare solo dieci, previa compilazione di una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (l’ennesima autocertificazione) scaricabile dal sito. Peccato che l’indirizzo del sito affisso sulla porta sia sbagliato.

I posti disponibili per la consultazione sono pochi, in poche ore bisogna esaurire un documento perché dopo averlo restituito non lo si vede più almeno per una settimana, le code d’attesa per la prenotazione fanno invidia alle Asl.
Le prassi restrittive riguardano tutti i centri di consultazione, senza distinzioni tra le più antiche ed austere biblioteche di conservazione e le più moderne biblioteche di pubblica lettura, con scaffali a vista e salottini, che sono luoghi di incontro più che di studio, molto più simili a una libreria Feltrinelli che al monastero benedettino di Santa Scolastica (solo che è tutto gratis e non c’è rumore).

Certo, c’era stato un motivo di distanziamento per restringere il pubblico delle biblioteche-salotto, ma le librerie hanno riaperto ad aprile. In ogni caso non si capisce la ragione della chiusura (o apertura a spiraglietti, è uguale) delle biblioteche-monastero.

Scrittori, giornalisti e ricercatori, che non possono lavorare, stanno cominciando a mostrare segni di esasperazione.

È vero che se dici “ricercatori”, particolarmente in campo umanistico, tutti pensano subito a baronetti universitari pagati profumatamente per star tutto il giorno a contemplare un ablativo. Ma in realtà molti sono umili precari che contribuiscono alla cultura nazionale in cambio di incerte retribuzioni ed esigue royalties, e più per passione che per milioni mantengono in vita il patrimonio conservato nelle nostre biblioteche, musei e archivi. E se il loro luogo di ricerca e lavoro resta chiuso, non guadagnano: così come i bibliotecari, che in alcuni casi sono precari a contratto e ora temono di perdere il posto.

Lo scrittore Alessandro Marzo Magno, autore di libri di storia, si è sfogato in una lettera aperta al ministro Franceschini implorandolo di permettergli di lavorare e raccontando le acrobazie per accedere a un documento.

Meno diplomatico il triestino che si firma @Birnbaumchen e che ha elegantemente sbottato su Twitter:

Anche la Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’arte ha scritto ai ministri Franceschini e Manfredi e ai vari direttori generali competenti reclamando la necessità di riaprire quei luoghi dove la cultura è tutelata, libera e gratuita e che costituiscono un grandissimo retroterra, accademico e conservativo, della vita della nazione: «Il timore – si legge nella lettera – è che questo settore venga lasciato indietro perché non direttamente connesso alle strutture del commercio e della produzione industriale».

E non si capisce chi abbia deciso che questa attività vada lasciata indietro, e perché. Lasciamo stare per ora i discorsi ideali sul valore della cultura o le osservazioni sulle campagne di promozione di vendita del prodotto-libro invece che della lettura: ne riparleremo quando vedremo gli effetti dello stanziamento di 30 milioni che il Mibact ha fatto su sollecitazione delle associazioni italiane di biblioteche, editori e librai, per permettere alle biblioteche locali di rifornirsi dalle librerie locali, non tanto per supportare l’Articolo 9 della Costituzione quanto per un «programmato aiuto al mercato librario» (sic).

Adesso la cosa che ci piacerebbe è sapere dove sono e cosa fanno tutte le persone che potrebbero – senza troppa fatica in più rispetto a prima – tenere aperte le biblioteche. Con le sale vuote, le richieste al banco annullate e gli orari ridotti, tutto il personale che serviva in epoca precovid, ora dove sarà? Gli addetti alla comunicazione un po’ di lavoro smart lo hanno fatto, perché hanno aggiornato le pagine social e pubblicato video con attività culturali di clausura e con illustrazioni dei fondi e dei volumi che si celano nei loro archivi. Così ora sappiamo che le nostre biblioteche storiche e di conservazione posseggono patrimoni dal valore incalcolabile, che però non potremo sfogliare.

Il problema principale sarebbe la quarantena consigliata per i libri maneggiati dai lettori che l’Istituto della Patologia del Libro ha consigliato in dieci giorni, poi ridotti a sette dopo polemiche con l’Associazione Italiana Biblioteche e con la precisazione di occuparsi solo della tutela dell’oggetto antico e delicato, e non del problema virale. Quindi – se si volesse legger meglio – il consiglio era semplicemente di non spalmare cinquecentine e incunaboli di gel e amuchina e di pulire le superfici della mobilia antica, ove possibile, con carta assorbente imbevuta di soluzione alcolica.

Ma la maggior parte degli addetti l’ha interpretato come un divieto ad avvicinarsi ai libri. Ed era aprile: ora volendo ci si può provare vestiti nei negozi e in libreria sfogliare volumi o andare in piscina, è persino ben visto il runner e condonata la movida, ma in biblioteca ancora non si può lavorare.
Così mentre il mondo riparte, proprio là dove non ci sarebbe nessun problema a usare i guanti e dove i divisori in plexiglass servirebbero ad aiutare la concentrazione e dove peraltro il rischio droplet è ridotto al minimo dato che non si può nemmeno parlare, proprio là stiamo ancora pensando a cosa fare.

A quanto pare, non esiste per le biblioteche pubbliche una direttiva unica (e quindi una spiegazione ufficiale di questo disservizio) e ciascuna fa come vuole o come può o un po’ così, come capita. E nel dubbio, non apre.
Alla pagina dell’Anagrafe delle Biblioteche pubbliche italiane si legge: «Si avvisa l’utenza che le biblioteche stanno ripristinando gradualmente il servizio in base al DPCM del 17 maggio 2020. Gli orari e i servizi potrebbero aver subito variazioni, si consiglia pertanto di contattare le biblioteche e consultare le loro pagine web».

Da bravi topi da computer le abbiamo spulciate tutte e abbiamo capito che nessuna è ancora a pieno regime, che quelle aperte lavorano a orario ridotto e su appuntamento e che la parte più difficile è la consultazione dei materiali non prestabili (per la maggior parte sono documenti storici o volumi fuori commercio e perciò l’unico modo per vederli è consultarli in sede). Ma soprattutto che, alle soglie della fine dello stato di emergenza, si stanno ancora organizzando.

E cosa hanno fatto durante il lockdown in cui comunque nessuna biblioteca ha ufficialmente cessato di lavorare? Avranno risistemato tutti gli archivi e magazzini? Riorganizzato il soggettario e la classificazione? Preparato nuove strutture e preso provvedimenti innovativi e rivisto tutta la logistica? Reso più sicuri i servizi igienici e gli impianti di aerazione e condizionamento? Speriamo.

Per esempio, la Nazionale Braidense di Milano deve essere stata colta di sorpresa il 4 maggio alla fine del lockdown, e infatti ha riaperto un mese dopo, l’8 giugno, solo con il servizio di prestito su prenotazione e orari ridotti. Ma ha aspettato il 27 maggio per pubblicare un sondaggio online in cui ha chiesto agli utenti se ritenessero importante limitare il numero di persone nei bagni o la pulizia più frequente di spazi a traffico elevato come servizi igienici e ascensori o far indossare una mascherina a studiosi e personale a contatto col pubblico e cose del genere.

Cose del genere che non si capisce perché le chiedano a ricercatori di storia e critici d’arte invece che a medici e virologi. E in particolare non si capisce perché abbiano chiesto agli utenti se, con le adeguate misure di sicurezza, si sentissero maggiormente a proprio agio tornando a frequentare la biblioteca entro un mese, tre mesi, sei mesi o un anno. Un anno? Che senso avrebbe tenere la biblioteca chiusa per un anno? E se gli rispondo che torno tra un anno cosa fanno fino a giugno 2021?

Nel frattempo, a ogni buon conto dall’8 marzo è stato sospeso a tempo indefinito il ritiro dei documenti oggetto di deposito legale: ovvero della copia di ogni libro pubblicato che deve essere consegnata per obbligo di conservazione alle Biblioteche Nazionali. In altre parole, mentre in tutta Italia una delle poche cose che ha continuato a funzionare è stato il recapito di pacchi e mentre in biblioteca non c’è pubblico, la Biblioteca Nazionale ha sospeso la ricezione di libri e la relativa asettica catalogazione.

Il 22 giugno la Braidense ha riaperto il servizio di consultazione su appuntamento. Queste le misure a cui si è pensato: ingresso uno alla volta, gel disinfettante, distanziamento fisico, dpi al personale, sanificazione regolare, termoscanner, assistenza telefonica e carrelli in cui il lettore può riporre i libri direttamente. In pratica, in tre mesi e mezzo hanno approntato le stesse misure che il mio ortolano aveva predisposto in un solo giorno a marzo.

Ci sono stata appena ha riaperto, alla Nazionale Braidense (o, come si dice in milanese, in Braidense), a restituire un libro preso in prestito a febbraio.
La scena è la seguente.

Sulle scale davanti a me un giovanotto. Entra dopo termoscanner settato su altezza watussi, saltando per essere inquadrato ma cercando di evitare sforzi febbrili, e chiede di rinnovare le credenziali per il prestito online.
Gli dicono che deve farlo al telefono. Prova a insistere, dato che è già lì. Niet.
Esce mogio.
Entro dietro di lui dopo termoscanner watussi.
Riconsegno i libri ponendoli in una scatola, aspettandomi festeggiamenti per la solerzia. Nessun festeggiamento e nessuna ricevuta, nemmeno un timbro sul fogliuzzo che dovrebbe rimanere a me e invece va lasciato nella scatola. Spero solo che nella quarantena non si perdano i libri altrimenti non ho alcuna prova di averli resi.
Chiedo all’impiegato le prospettive per la consultazione: boh. Ora ha riaperto ma solo su appuntamento e comunque ha subito richiuso mezza giornata per orario estivo.
Intanto sono in due all’ingresso a consegnare libri e guardare la scatola dei restituiti.
Chiedo cosa fanno i vostri colleghi. Niente, sa, quel poco di catalogazione che si può fare (penso: ma se persino il ritiro del deposito legale è sospeso!).
Cosa hanno fatto in questi mesi? Niente, sa, quel poco che.
Intanto suona il telefono, è un utente che vuole rinnovare le credenziali. Bisogna chiedere a Stefano ma Stefano chissà dov’è, non si trova. I due dell’atrio si allarmano. Capisco che il momento è critico se con la biblioteca deserta un impiegato su tre scompare, e me ne vado prima del picco di panico.
Fuori della porta c’è il giovanotto che era entrato prima di me, è al telefono con loro per rinnovare le credenziali che di persona non si poteva.

Alla Comunale di Milano invece hanno voglia di chiacchierare, da poco hanno riaperto la consultazione su appuntamento (quattro lettori per volta nella grande sala, ci saranno circa otto metri tra me e l’altro). Ma sa, mi confida l’addetto al prestito, durerà poco perché non abbiamo l’aria condizionata, l’impianto è vecchio e non compatibile con le norme anticovid e sa, con questo caldo non si può lavorare. Perché secondo lui tutti quelli che lavorano da casa hanno un impianto di aerazione smart?

E poi tanto – aggiunge profeticamente – arriverà la seconda ondata di virus…
In ogni caso il problema insormontabile sarebbe l’affollamento dei bagni, e anche i metodi di selezione all’ingresso che si vorrebbero il più possibile democratici (l’atrio è frequentato da homeless che entrano a ripararsi e nella sala lettura persone straniere vengono a leggere i giornali e collegarsi a wifi senza che nessuno chieda loro documenti o certificati). Quindi pur di non discriminare, meglio chiudere.
Ricordo che qualche anno fa il Comune consigliava agli anziani di andare in biblioteca per prendere fresco. E ora, tutti a casa al caldo in smartworking?

Eh no, a casa al caldo ma senza poter lavorare nemmeno via Internet, perché la Guardia di Finanza italiana ha inavvertitamente chiuso gli accessi a Gutenberg.org, la maggior biblioteca digitale al mondo, che ospita gratuitamente sessantamila opere libere da diritti e perciò perfettamente legali.
Il sito statunitense, uno dei più antichi del web, era caduto in una retata contro i pirati che mettevano a disposizione abusivamente la lettura di quotidiani. L’associazione Gutenberg non c’entra niente ma dato che hanno altro a cui pensare che a far ricorso in un paesino come l’Italia, il sito per noi resta inaccessibile. A meno che non abbiate una connessione Iliad o un dns Google, perché anche quando mettiamo i sigilli digitali lo facciamo un po’ così, come capita.

 

Nella foto di apertura, di Alessandro Marzo Magno, i tavoli incellofanati della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

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