REGGIO CALABRIA – Sul palco allestito con una scenografia essenziale ci sono due attori, Fabrizio Ferracane e Salvatore Arena, immersi in una lettura di testi calabresi “cuciti” come se si trattasse di un unico racconto. Volgendo lo sguardo sulla sinistra la vista si perde nel mare, dal lembo meridionale della città di Reggio Calabria fino alle coste e ai monti della Sicilia. Siamo nel Parco Diffuso della Conoscenza e del Benessere in quel di Pellaro, periferia sud di Reggio Calabria durante la rassegna “EPIC” di Mana Chuma Teatro. Un balcone sullo Stretto che è la propaggine del Centro di Medicina solidale e di prossimità ACE. O, per meglio dire, la sua rappresentazione plastica. Ma cos’è ACE? L’acronimo sta per Associazione Calabrese di Epatologia, un’associazione costituita una trentina di anni fa da un gruppo di medici e biologi che, dopo aver maturato importanti esperienze accademiche al nord, erano da poco tornati a lavorare nella loro regione.
Decisero di fare ricerca anche in Calabria, iniziando con due studi epidemiologici premiati dall’interesse della comunità scientifica internazionale. Quelle ricerche li portarono a scoprire che oltre alle malattie infettive anche quelle metaboliche colpiscono principalmente le fasce più povere e marginali della popolazione. In particolare la seconda ricerca, focalizzata sugli studenti delle scuole medie di Reggio Calabria, mostrò che i livelli di obesità dei ragazzini di età compresa tra gli 11 e i 13 anni erano perfettamente, e incredibilmente, sovrapponibili a quelli degli Stati Uniti. ”Da lì decidemmo che non potevamo limitarci solo alla ricerca scientifica, ma che a fronte di una situazione sanitaria drammatica avremmo dovuto impegnarci anche dal punto di vista clinico-assistenziale”. A parlare è il dottor Lino Caserta, 63 anni, primario di Medicina al policlinico Madonna della Consolazione di Reggio Calabria, presidente dell’associazione ACE e tra i fondatori del Centro di medicina solidale di Pellaro. Una struttura nata nell’ottobre 2010 dalla rigenerazione di un bene pubblico in disuso, una residenza psichiatrica costruita ma mai avviata dalla Regione Calabria, ben presto abbandonato, vandalizzato e utilizzato dai tossicodipendenti della zona.
Oggi la struttura eroga visite specialistiche e analisi diagnostiche a 25mila persone l’anno. Gratuitamente. Su una parete del centro si può leggere a caratteri cubitali l’articolo 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Un altro cartello recita una frase di Giuseppe Moscati, il “medico dei poveri”: “Chi ha doni, chi non ha prenda”. Il centro si sostiene infatti con le piccole donazioni dei pazienti che lo frequentano. “A donare è circa l’80%, il venti percento non può permetterselo”, ci spiega Caserta. Assieme a lui in questa oasi nella disastrata sanità calabrese operano come volontari una trentina di medici. Ci sono poi due infermieri e un nutrizionista a tempo indeterminato, due amministrativi a tempo determinato e due medici a libera prestazione.
“Quando abbiamo aperto, si è sparsa subito la voce che fornivamo prestazioni gratuite e siamo stati presi d’assalto. Abbiamo dovuto disciplinare le visite con il filtro dei medici di base. Per ottenere una visita da noi basta l’impegnativa del medico di famiglia. Le liste d’attesa non superano i quindici giorni”. Un sogno in una regione in cui le carenze del pubblico hanno fatto la fortuna degli specialisti e degli istituti diagnostici privati. Dopo Pellaro, nel 2016 i volontari di ACE hanno anche aperto un piccolo studio medico presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria. “L’intuizione è stata di mia moglie che è la responsabile della segreteria dell’Università”, racconta Caserta. Qui le esigenze sono completamente diverse, trattandosi di ventenni in prevalenza sani. Si lavora molto sulla prevenzione, a partire dallo stile di vita e delle abitudini alimentari, e sul disagio psichico. Un fenomeno, questo, cresciuto a dismisura durante la pandemia per via dell’isolamento forzato a causa del lockdown. “Durante la pandemia vedevamo i ragazzi fuorisede bloccati in città, da soli, senza la possibilità di poter tornare dalle loro famiglie. Questo disagio si è poi consolidato con altri tipi di difficoltà, ad esempio le incertezze per il futuro”. Il lavoro della psicoterapeuta dell’associazione diventa, quindi, fondamentale per aiutare gli studenti ad affrontare le difficoltà del presente e le incognite del futuro.
La nuova sfida di ACE oggi si chiama Arghillà. Siamo al lato opposto della città, una collina nella zona nord di Reggio Calabria. Un altro balcone sullo Stretto che, però, è il simbolo del degrado sociale e urbanistico, oltre che di decenni di politiche sbagliate. Un territorio di frontiera dove gli alloggi dell’edilizia popolare sono stati in parte assegnati alla comunità rom dopo un trasferimento forzato da una zona più centrale della città e in larga misura sono occupati illegalmente da altri rom, da immigrati africani e da italiani poverissimi. Un territorio dove la presenza dello Stato è inesistente, se non per le volanti della Polizia che quotidianamente pattugliano la zona. E per un progetto da poco avviato dal comune di Reggio assieme a una serie di associazioni locali tra cui anche ACE.
Nonostante le esigenze di salute della popolazione siano enormi, il polo di prossimità creato dall’associazione reggina trova forti resistenze per la scarsa consapevolezza che gli abitanti del quartiere hanno del proprio stato di salute e dei loro diritti come cittadini. “Una volta aperto l’ambulatorio”, è sempre il dottor Caserta a raccontare, “ci siamo accorti che tutti gli strumenti che avevamo precedentemente messo in campo, ad Arghillà non avevano nessun valore. A pesare maggiormente è la diffidenza della popolazione, al punto che siamo stati costretti ad affiggere un cartello in cui si chiariva che tutti i servizi che eroghiamo sono gratuiti. Abbiamo dovuto anche cambiare approccio, provando ad avvicinare noi le persone attraverso figure professionali non strettamente legate all’ambito medico”.
Di fronte alle difficoltà, i volontari di ACE non gettano la spugna. Al contrario, cercano di individuare soluzioni creative. Cruciali nella loro visione sono tre aspetti: la prevenzione, la prossimità e il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. La prossimità non è intesa esclusivamente in senso spaziale, ossia portare un centro medico nelle zone in cui è necessario, ma come pratica che coinvolga tutta una serie di professionalità – il mediatore culturale, l’assistente sociale, l’animatore di comunità, il sociologo – che facciano emergere quei bisogni che altrimenti rimarrebbero inespressi per poi indirizzarli verso gli ambienti medici in cui proporre la prevenzione, prima ancora della cura. L’idea di salute pubblica di questo manipolo di “volontari-missionari” è una sorta di eresia, specie in un quadro complicato come quello della sanità calabrese. Quando gli chiediamo come veda l’esperienza dell’associazione nel difficile contesto della sua regione, Caserta si infervora: “Noi siamo una costola della sanità calabrese, ma ciò che proponiamo è un nuovo paradigma sanitario che parta dalla prevenzione e dalla salvaguardia della salute e non si occupi esclusivamente dell’assistenza alla malattia. La cura dell’individuo non può prescindere dalla cura dell’ambiente nelle sue diverse espressioni sociali, culturali, economiche, naturali, paesaggistiche”.
E qui torniamo all’inizio del nostro viaggio, al Parco Diffuso della Conoscenza e del Benessere. Un enorme spazio verde che mette in pratica la visione alternativa della medicina proposta da ACE. Ci sono percorsi di trekking (“pensati da un ragazzo con autismo, che qui ha trovato la sua dimensione”), un vigneto, uno spazio espositivo, una casetta in cui si organizzano momenti conviviali, un anfiteatro dove si tengono spettacoli teatrali, presentazioni di libri, proiezioni di film, un grande giardino in cui ci si può sedere a leggere un libro nel silenzio e ammirare il panorama dello Stretto. “Cambiare il rapporto con l’ambiente ti permette di abbattere la spesa sanitaria nell’arco di dieci anni. Se invece di spendere somme enormi in tecnologie sempre più avanzate e costose e in farmaci di ultima generazione, si investisse in educazione, nelle strutture sportive, nella rigenerazione dell’ambiente e degli spazi urbani, in tutto ciò che possiamo definire “determinanti di salute”, i costi legati all’assistenza si ridurebbero esponenzialmente rendendo sostenibile un sistema di welfare che oggi sta andando in crisi, non soltanto in Italia”, chiosa il dottor Caserta. Un’altra sanità è (forse) possibile e un esempio concreto arriva da questo piccolo intrigante esperimento calabrese.
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