Se studiare non serve più
Il nuovo Rapporto dell’OCSE Education at a Glance appena pubblicato lancia l’allarme: nella classifica dei 34 Paesi più industrializzati del mondo, l’Italia è ultima per numero di giovani laureati. La quota di laureati è del 24%, rispetto alle quote inarrivabili di Germania (vicina al 30%) e Francia (ben oltre il 40%), ma anche inferiore a paesi come Cile, Messico e Turchia. Questo risultato, non certo inaspettato, ma non per questo meno grave, è il risultato di vecchi problemi acuiti nei recenti anni da una politica che, di fatto, non ha mai fatto dell’istruzione (a tutti i livelli!) una vera priorità. Questo infatti lo si vede dai numeri sulla spesa per l’istruzione terziaria, pari allo 0,9% del Pil, ultima tra i grandi paesi e quart’ultima nella classifica generale.
Quali sono le ragioni? Alcune sono radicate nella tradizione familista italiana. In Italia la disuguaglianza nei livelli di reddito dipende in modo marcato dall’ereditarietà nelle posizioni economiche e sociali. Ovviamente non siamo soli in questo caso, accade anche in altri paesi. Ma nel nostro caso c’è una particolarità che riguarda proprio con il ruolo dell’istruzione. Generalmente infatti un importante meccanismo di trasmissione intergenerazionale è costituito dagli investimenti in capitale umano. Le famiglie benestanti tendono ad investire di più nell’istruzione dei figli, e questo si riflette poi in maggiore probabilità di laurearsi e di ottenere impieghi migliori. In Italia però questo avviene in misura minore, in quanto la forte ereditarietà nelle posizioni economiche e sociali non è accompagnata da un alto rendimento dell’istruzione. E da cosa dipende allora? Dipende da una serie di connessioni sociali, reti, e sistemi di conoscenze che avvantaggiano i figli delle famiglie ricche, poichè nel nostro paese i legami sociali sono la fonte primaria di collocamento nel mercato del lavoro.
Altro nodo poi riguarda il premio per l’istruzione, ossia il fatto che il mercato del lavoro generalmente premia con un salario più elevato i laureati. Anche in questo caso l’Italia presenta una peculiarità. In media, in Italia come altrove, i laureati hanno redditi da lavoro più alti rispetto ai lavoratori con un livello d’istruzione inferiore. Tuttavia, il premio è nettamente inferiore (143%) rispetto alla media dei paesi Ocse (160%). Ovviamente occorre tenere presente i costi del conseguimento di una laurea (incluso il rischio di non riuscire a terminare gli studi): costi diretti per l’istruzione, redditi perduti per gli anni di mancato lavoro. La percezione di una laurea sempre meno “utile” assieme ai costi che tendono ad aumentare (rette universitarie in aumento – in 10 anni si passa da una tassazione media di 736 euro ad una di 1.112 euro – e riduzione di borse di studio) creano un forte effetto di scoraggiamento.
Questo effetto scoraggiamento si palesa soprattutto al Sud dove, secondo i dati Almalaurea, il tasso di occupazione tra i laureati è del 35% contro il 52,5% del Nord. Ad un anno dalla laurea i ragazzi del Nord hanno uno stipendio più alto del 24% rispetto ai ragazzi del Sud. Non sorprende allora che rispetto a dieci anni fa è infatti proprio il Meridione ad aver subito un drammatico calo degli iscritti nelle università. Come riporta il rapporto della Svimez: “Si inizia a credere che studiare non paghi più, alimentando una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata”.
Un commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.