Beni comuni

L’impatto della pandemia sui territori fragili: pensieri per il “dopo”

18 Marzo 2020

Lo capiamo di ora in ora, di giorno in giorno: nulla sarà come prima.

Anche quando l’onda del Covid_19 si sarà ritirata, le forme e le pratiche della vita quotidiana, l’organizzazione del lavoro, i processi produttivi e della distribuzione, le interconnessioni globali e le relazioni geopolitiche, non potranno ritornare allo stato antecedente.

Per chi, come il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano in cui lavoro, sta sviluppando un Progetto di eccellenza finanziato dal Ministero dell’Università sul tema “Fragilità territoriali”, si tratta di una sfida rilevante, che ci chiede immaginazione e capacità di produrre conoscenza utilizzabile, non potendo purtroppo aiutare in prima linea.

Vedo almeno tre terreni di lavoro importante.

Il primo riguarda la comprensione degli effetti del virus nei diversi territori, e il modo in cui i territori forniscono al virus prese o resistenze. E’ stato osservato, tra gli altri da Arturo Lanzani, che il virus in Italia appare per ora aggressivo in quella che lui chiama Italia di mezzo. Vò, Codogno, la bergamasca. Ma anche la martoriata città di Bergamo, Cremona, per stare solo alla Lombardia. Città medie, urbanizzazioni periurbane e diffuse e campagne abitate: i luoghi dello sviluppo spesso insostenibile del nostro Paese nel ciclo lungo della crescita economica e insediativa. Vedremo gli effetti nelle grandi aree urbane, ma certamente già sappiamo che le diseguaglianze sociali e spaziali, i divari di capitale sociale e culturale, saranno un fattore decisivo di intensificazione o diradamento degli effetti del virus. Per non parlare del nesso tra luoghi interni dell’abitare (la casa, piccola o grande, che permette o meno un relativo isolamento, etc..). La aree interne, le montagne, i borghi spopolati, i luoghi dell’Italia più fragile appaiono oggi i meno colpiti in ragione della bassa densità, ma forse è una impressione. Inoltre, questi stessi luoghi rischaino di essere sempre più “sconnessi” dal resto del Paese.

Dunque, è importante che la nostra lettura dei territori e dei paesaggi metta al lavoro una comprensione dei rapporti tra il virus, i divari territoriali, le dinamiche dello sviluppo, le forme di vita all’intersezione tra spazio e società. Capire la dimensione spaziale e territoriale di un agente invisibile è difficile, ma è insieme indispensabile per ragionare sugli effetti.

Dunque, le nostre geografie dei territori fragili dovrebbero essere usate per ragionare sul modo in cui il virus agisce sulle persone, sulle famiglie, ma anche sulle economie e sulle pratiche, anche rispetto al tema, che va trattato con molta cura e senza deviazioni ideologiche, degli effetti “biopolitici” di disciplinamento, confinamento, normalizzazione, riduzione delle libertà nell’uso dello spazio (ne avevano parlato Gaeta e Bolocan in un articolo uscito su Repubblica).

Un secondo terreno riguarda le politiche per il dopo-virus. Su questo punto possiamo fare molto, anche sulla base delle nostre ricerche in atto e dello sforzo che stiamo facendo nell’ambito del Progetto Dipartimento di Eccellenza “Fragilità territoriali”.

Non possiamo immaginare ancora pienamente gli effetti che avrà sull’economia italiana e mondiale l’epidemia in corso, ma sappiamo che saranno certamente drammatici, e che necessariamente anche le politiche urbane e territoriali, a scala regionale, nazionale e comunitaria dovranno tenerne conto.

Da questo punto di vista è decisivo che le azioni che verranno intraprese, a emergenza finita, siano in grado di porsi congiuntamente tre obiettivi di carattere generale:

1. favorire la ripartenza dell’economia, ed in particolare dei settori che saranno maggiormente penalizzati dalla crisi in atto (turismo, cultura, spettacolo e intrattenimento, commercio non alimentare, settori export led, filiere produttive manifatturiere, edilizia, …), attraverso un sostegno diretto agli investimenti che favorisca anche una rapida inversione delle aspettative e del clima economico complessivo, sapendo però il virus probabilmente introdurrà alcuni cambiamenti strutturali nelle forme di organizzazione della produzione e del lavoro e che ci chiederà una attenzione particolare verso alcuni territori;
2. promuovere attraverso investimenti di carattere strutturale un nuovo modello di sviluppo centrato sulla conversione ecologica dell’economia, sostenibile sotto il profilo ambientale e sociale e sensibile alla transizione climatica, evitando con ogni mezzo che gli investimenti per la ripresa reiterino un modello di sviluppo largamente insostenibile per il nostro Paese e per l’Europa. Ad esempio, è fondamentale che una grande operazione di manutenzione straordinaria del Paese non sia incardinata sulla realizzazione di grandi opere, ma in prima istanza sulle piccole infrastrutture e sulle opere di manutenzione e riqualificazione che migliorano qui e ora la qualità della vita dei cittadini e che possono essere anche avviate e realizzate in tempi brevi. D’altra parte, tale modello di sviluppo dovrà necessariamente farsi carico dell’infrastrutturazione digitale del territorio e della dotazione di servizi connessi (telemedicina, smartworking, ecc.) in bilico tra sviluppo economico, riduzione delle diseguaglianze e tutela della privacy;
3. utilizzare la programmazione per ridurre i divari tra le diverse parti del paese, tra macroregioni, tra i differenti territori fragili, all’interno di esse e nell’ambito di ogni territorio, ivi comprese le aree urbane, ponendo come  obiettivo prioritario il sostegno dei gruppi e dei ceti sociali più marginalizzati e più penalizzati dalle conseguenze dell’epidemia in corso. Con una doppia attenzione: ai singoli e ai gruppi gravemente svantaggiati, quando non in condizione di povertà assoluta (sarà probabilmente il caso dei lavoratori precari del terziario “basso” nei servizi urbani), ma anche ai gruppi e ai ceti che rischiano un drastico impoverimento e una forte crescita della vulnerabilità.
Per perseguire questi obiettivi, con riferimento in particolare alla dimensione della coesione sociale e territoriale, è fondamentale promuovere l’implementazione di tre strategie, tra loro correlate:

1. la riconversione ecologica delle economie di territorio, attraverso interventi di carattere infrastrutturali capaci, nelle diverse situazioni e contesti, di promuovere il rilancio delle economie locali attraverso il riorientamento dei prodotti, dei processi e delle filiere, che tenga conto anche della necessaria crescita delle attività in remoto e su piattaforme digitali. Questa riconversione può interessare sia settori come il turismo, sia filiere manifatturiere, attraverso processi di infrastrutturazione digitale, efficientamento e risparmio energetico, sperimentazioni sul fronte della logistica e del trasporto merci, innovazioni di prodotto nella direzione del riuso e del recupero (ad esempio nell’industria chimica e nella filiera della plastica). In questo contesto è inoltre decisivo il sostegno alle politiche urbane per la resilienza al cambiamento climatico, attraverso l’innovazione delle tecnologie in campo energetico nell’edilizia, della mobilità pubblica e privata, della riqualificazione delle infrastrutture blu e verdi, anche in chiave di contrasto alle fragilità idrogeologiche, della rigenerazione del patrimonio dismesso o sottoutilizzato, evitando con ogni mezzo ulteriore consumo di suolo non urbanizzato;
2. un grande piano nazionale di manutenzione straordinaria del territorio italiano, con particolare riferimento ai territori fragili (periferie urbane, aree dell’Italia di mezzo a rischio di desertificazione produttiva e di spopolamento, aree interne). Questa strategia dovrebbe innanzitutto promuovere la messa in sicurezza del territorio, attraverso un piano nazionale di piccole opere che avrebbero anche il pregio di essere rapidamente attivabili, la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio, la presa in carico e l’infrastrutturazione leggera delle aree che maggiormente contribuiscono alla produzione di servizi ecosistemici, la promozione di infrastrutture per la mobilità lenta e ciclabile che possano diventare anche dispositivi per la promozione di progetti di sviluppo di scala territoriale, e così via;
3. una politica integrata per la riqualificazione e rigenerazione del patrimonio pubblico del cosiddetto “welfare materiale” (case, scuole, presidi sanitari, impianti sportivi, altri servizi territoriali, parchi e aree verdi), attraverso il sostegno a progetti locali integrati che facciano perno su questo patrimonio come strumento di integrazione sociale e di riqualificazione ambientale ed ecologica. Questo terzo terreno, strettamente connesso ai primi due, assume i presidi territoriali del welfare come hub territoriali sui quali costruire veri e propri “contratti locali” (per esempio, contratti di scuola, sul modello dei contratti di quartiere) che coinvolgano istituzioni, società civile organizzata, cittadinanza attiva, imprese e che siano in grado di ripensare spazi e pratiche.
Infine, dobbiamo immaginare anche effetti più profondi e pervasivi, che riguardano le pratiche quotidiane nello spazio, le forme di vita, i modelli di interazione localizzata, l’esercizio dell’affettività. Si tratta del tema più incerto, più inquietante. Ma si tratta di un tema intorno al quale, ancora una volta, lo spazio conta. E con esso l’architettura e l’urbanistica.

Come fronteggeremo questi mutamenti di immaginario, che sicuramente la pandemia indurrà in larghi strati della popolazione? Quanto peseranno nelle dinamiche già in atto di auto-immunizzazione e di separazione (delle popolazioni, degli spazi, e anche dentro le residenze)? Quanto si ridefinirà la regolazione pubblica dello spazio?

Vedremo, ma intanto una riflessione, teorica e progettuale, potrebbe avviarsi anche intorno a questa dimensione.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.