Finanza

La ripresa “tossica” del Dragone cinese

11 Novembre 2016

Dopo lo spettacolare botto dei mercati azionari di inizio 2016, sembra che la Cina abbia ripreso a correre. L’ultimo dato del PIL (cfr. Figura 1) conferma una crescita stabile al 6,7% annuo mentre il tasso di disoccupazione è inchiodato al livello di piena occupazione del 4%. I mercati sembrano però non fidarsi troppo dei dati ufficiali governativi, rilasciati sempre con una rapidità sospetta per un Paese enorme (1 miliardo e 350 milioni di persone) e mai soggetti a revisione. Il dato sulla crescita ad esempio, è sostanzialmente costante da quasi 12 mesi a meno di scostamenti decimali. A guardare la serie storica a partire dal 2002, si nota come fino agli ultimi 2 anni il dato sia stato attestato sempre su livelli più alti di adesso e soprattutto fosse molto più volatile.

Figura 1

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La ripartenza cinese non convince gli analisti internazionali. La transizione verso un’economia più equilibrata sul versante dei consumi e dei servizi, ad alta tecnologia e più rispettosa nei confronti del lavoro e dell’ambiente continua ad essere auspicata ufficialmente dalle autorità, ma non sta avvenendo. Anzi, a trainare l’economia sono i vecchi cavalli di battaglia: i profitti dell’industria del carbone, le costruzioni e la manifattura a basso contenuto tecnologico. Gli enormi stimoli fiscali del governo e il sostegno dato dalla banca centrale (la PBOC – People Bank of China) al sistema bancario hanno prodotto un’enorme onda di liquidità che si è riversata soltanto sulle grandi industrie a direzione statale (acciaio, cantieristica navale) e sul mercato immobiliare. La sovrapproduzione dell’industria pesante prosegue ed i tentativi del governo di imporre dei limiti a livello regolamentare stanno cadendo nel vuoto. I dirigenti truccano regolarmente i numeri per ottenere fondi ed è probabile che la dichiarata riduzione del 36% della capacità produttiva di acciaio nel 2016 si riveli una bufala. Il tessuto industriale più innovativo è rimasto a secco; gli investimenti nel settore high-tech e in quello dei servizi, soprattutto il settore commerciale retail, languono.

Oltre il 20% del totale dei nuovi prestiti è un mutuo immobiliare, erogato senza la richiesta di particolari garanzie. Per le seconde case le banche finanziano oltre il 70% del valore dell’immobile. È la situazione ideale per la speculazione immobiliare. Non a caso i prezzi delle case sono in un’ascesa fuori controllo: in 10 mesi si registrano aumenti del 28% a Pechino, 33% a Shangai e fino al 50% nelle province del Sud nonostante i tassi di occupazione delle nuove costruzioni non siano particolarmente alti (intorno al 60%). Ovviamente questo supporto all’economia è stato coperto da gigantesche emissioni di nuovo debito; in un solo anno quello pubblico è cresciuto di 5 punti di PIL, quello privato di 25. Dalle mie ricostruzioni il debito cinese totale ad ottobre sfiorava il 315% del PIL (cfr. Figura 2).

I rischi di un debito eccessivo per il settore privato (il c.d. debt overhang) sono stati già ben delineati nel Global Financial Stability Report del Fondo Monetario Internazionale: secondo gli analisti FMI la Cina ha una quantità di debito privato non sostenibile in una misura tra il 22% ed il 27% del PIL, cioè circa 5 volte maggiore del livello che di solito precede l’insorgere di una crisi finanziaria. L’eccesso di debito infatti impedisce di finanziare progetti che abbiano una redditività positiva dato che il semplice pagamento degli interessi ai debitori rende il valore atteso dell’investimento negativo; la crescita si blocca, le prospettive per l’impresa privata peggiorano e diviene sempre più probabile il default sul debito preesistente.

Figura 2

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Peccato che quando la bolla immobiliare scoppierà gran parte di questi nuovi prestiti, che sfiorano oramai la cifra di 1100 miliardi di Dollari, si trasformerà in credito deteriorato. A quel punto una crisi bancaria in piena regola sarebbe dietro l’angolo: le banche cinesi sono già esposte per oltre 6000 miliardi di Dollari verso prestiti di dubbia qualità (junk instruments), con un incremento del 50% attribuibile solo all’ultimo anno. La durata dei prestiti, per la sua natura di finanziamento immobiliare, è parecchio elevata, in media 8 anni.

Allo stesso tempo il sistema bancario cinese è sempre più dipendente (fino al 30%) per il proprio funding da prestiti interbancari a breve termine, spesso pronti contro termine (repo) con scadenza una settimana o addirittura giornaliera. Questo disallineamento tra attivo e passivo rende il sistema bancario massimamente vulnerabile di fronte a crisi di liquidità. Si tratta di un vero e proprio “tallone d’Achille” del sistema finanziario cinese. Non è solo il livello del debito che conta, ma anche le modalità di reperimento dei finanziamenti. In passato è stata proprio la dipendenza dal credito interbancario a breve termine – che si può interrompere improvvisamente da un giorno all’altro – che ha portato al fallimento le banche Black Rock e Lehman Brothers.

Di conseguenza non sorprende che la strategia migliore per i grandi investitori sia defilarsi all’estero: la richiesta di attività finanziarie in Dollari è in forte crescita e lo Yuan continua a svalutarsi. Da quando la PBOC ha abbandonato il cambio fisso rispetto al Dollaro nell’agosto 2015, senza troppo clamore siamo arrivati ad una perdita di valore di circa il 9% (cfr. Figura 3). Infatti a tre brevi periodi di parziale recupero sono seguite tre discese decise in cui lo Yuan ogni volta ha perso almeno il 2% rispetto al Dollaro.

Figura 3

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Certo la PBOC vorrebbe tutt’altro: lo Yuan è appena entrato operativamente nel paniere di valute internazionali del Fondo Monetario Internazionale e sui mercati c’è forte aspettativa di stabilità. Per questo motivo, la banca centrale sta usando il suo enorme arsenale di riserve valutarie accumulato in 20 anni di surplus commerciale per acquistare Yuan e contrastare per quanto possibile il declino del cambio. Una cosa è certa: del picco di 4000 miliardi di Dollari di riserve che la PBOC deteneva nel giugno 2014  in 28 mesi ne sono già stati bruciati 800. A questo ritmo 20 anni di “sacrifici” verranno polverizzati in meno di 10 anni (cfr. Figura 4).

Si nota chiaramente dalla Figura 4 come fino all’agosto 2015 le riserve scendessero a tassi precipitosi mentre il tasso di cambio continuava ad essere costante intorno ai 0,161 Dollari per 1 Yuan; in questa fase la PBOC stava difendendo il cambio fisso acquistando Yuan e vendendo Dollari, Euro, Yen sul mercato FX (foreign exchange) mentre gli operatori di mercato mettevano in atto strategie opposte per esercitare pressione al ribasso sul tasso di cambio. Dall’agosto 2015 la PBOC rinuncia a difendere il cambio fisso ed adotta una strategia di retroguardia: lasciare svalutare lo Yuan ma a tassi moderati. In questa maniera la PBOC deve impegnare meno riserve valutarie nella difesa dello Yuan ma non abdica allo scontro e guadagna tempo. Il risultato è visibile in Figura 4 attraverso un chiaro rallentamento della velocità di declino delle riserve.

Figura 4

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Dagli ultimi dati emerge come la PBOC stia mettendo in campo anche strategie più sofisticate, tra cui l’acquisto di oltre 100 miliardi di titoli governativi giapponesi in contropartita della vendita di titoli americani (gli US Treasuries). Il fine è sempre quello di salvaguardare il valore delle riserve valutarie, già sotto pressione. Ciò che le autorità cinesi temono in massimo grado, infatti, è l’aumento dei tassi di interesse da parte della FED. Anche solo un ritocco dei tassi USA di 25 punti base nel meeting del 14 dicembre prossimo farebbe scendere il valore di mercato dei Treasuries nel bilancio della PBOC (se i tassi di interesse salgono, il valore dei titoli già in circolazione emessi a tassi più bassi scende). Al contrario appare sicuro che la Bank of Japan (BoJ) non aumenterà i tassi di interesse;  il valore dei titoli di Stato giapponesi rimarrà inalterato per via dell’ancoraggio all’obiettivo di tasso zero per il titolo a 10 anni fissato dalla BoJ. Questo gioco “in punta di fioretto” potrebbe far guadagnare del tempo alla PBOC, ma non troppo. D’altro canto l’unica manovra alternativa a disposizione della PBOC per sostenere lo Yuan sarebbe un aumento dei tassi di interesse in Cina, da sempre una medicina letale per la speculazione immobiliare per via dell’effetto naturale che ha di riduzione dei prestiti speculativi.

In definitiva, le mosse delle autorità cinesi hanno fatto ripartire il cuore produttivo dell’economia del Dragone; ma i costi collaterali di questa crescita (debito e bolle speculative) stanno crescendo a dismisura. E presto presenteranno il conto.

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