Serenissima bank
SMS delle 9.00: ciò Fede so incasinà .. possito prestarme … € e pena che posso te i ridò ?
Io: Ovvio. Dove se trovemo ?
Senza chiedere a cosa gli servono.
Senza chiedere niente.
Senza voler sapere cosa e come.
Senza tante domande.
E’ una cosa normale. Che si fa da secoli. Riprendendo il serenissimo spirito delle casse peote.
Se posso, se non sono incasinata io, lo faccio. Mi son trovata anch’io incasinata ed ho chiesto. Mi è stato dato senza domande. Senza mille carte da firmare.
Perché capita di trovarsi in difficoltà se sei un essere umano. Se poi lavori e non ti pagano, è una cosa che succede spesso. Allora fai grandi respiri, tiri giù quattro bestemmie e ti rivolgi agli amici. Metti da parte l’orgoglio e la vergogna e provi a chiedere.
Agli amici.
Gli amici quelli veri che diventano la peota.
Per quelli che al termine Serenissima associano subito “esaltati rivoluzionari secessionisti coi carri armati” o “figli di lega padania” non vuol dire niente.
Ma per chi la Serenissima Repubblica di Venezia l’ha studiata e la conosce per amore e per passione, sa cos’è la peota.
Una piccola barca a fondo piatto, usata ancora oggi a Venezia per il trasporto delle merci e di persone. Persone.
La Storia racconta di un gruppetto di popolane venessiane che mettevano da una parte piccole somme di ducati e zecchini e quando raggiungevano la cifra richiesta, affittavano una peota e alla domenica risalivano il Sile per andare nella Marca gioiosa et amorosa in cerca di un’osteria dove magnar e ber. Magnar carne dopo na vita de pesce.
Questa è la Storia.
Da questa usanza per mero scopo di fuga da Venezia e per mangiar carne, il passo a mettere via soldi in gruppo per qualcosa, è stato breve.
E si è tramandata. Come tradizione. Come abitudine. Come consuetudine secolare non basata su regole scritte ma accettata e condivisa da tutti.
Nei paesetti soprattutto, ovvero dappertutto visto che qui in Veneto non abbiamo grandissime città.
Durante l’Ottocento in Veneto ogni paesetto aveva la sua cassa peota. Anche due e tre.
Cassa peota dove chi aveva due schei in più li metteva li e cassa peota dove chi aveva bisogno di soldi si rivolgeva per ottenerli.
Io ho vissuto 20 anni a Loreggia, alta padovana. Nello stesso comune all’anagrafe, siamo stati registrati sia io che un certo Leone Wollemborg. Io me ne sono andata, come sempre sbattendo la porta, e non lasciando traccia del mio passaggio. Lui invece nel 1883 ha lasciato il suo segno, costituendo la prima Cassa Rurale d’Italia, figlia di madre cassa peota.
Stesso spirito. Stessi valori.
Specie di banche di mutua assistenza e luoghi di incontro tra persone.
Luoghi di incontro tra persone in Veneto sono ancora oggi due: osteria e ciesa.
Da qui le due tipologie di casse peote: quea del prete e quea dell’osteria.
Della prima mi ha raccontato spesso mio nonno: lui era sagrestano ed era incaricato di preparare i certificati di Fede & Moralità. Eh si perchè alla cassa peota del prete potevi associarti solo se avevi il certificato .. una specie di attestato di buona condotta.
Gli “avansi de gaera” e quelli che “guardava e donne de chealtri” si associavano alla cassa peota dell’osteria. Più semplice. Meno formale.
L’oste conosceva tutti i pregi e i difetti dei clienti da come battevano il fante, o in base al vino che bevevano.
Tranne che per le peote della Riviera del Brenta, si sapeva benissimo a chi si davano i soldi. Erano in mano sicure. Del prete o dell’oste.
Le casse peote sono una cosa veneta. Fanno parte della cultura veneta. Della cultura dei veneti basata su valori veri come quali il risparmio, l’oculatezza nelle spese, e non da ultima la solidarietà sociale.
Se da una parte siamo bastardi egoisti, individualisti, a volte vigliacchi arrivisti la solidarietà sociale locale è bella componente del vero veneto. Perché tra di noi, nel bene e nel male, ci conosciamo tutti. E la conoscenza diretta e personale delle persone è stata la base per far diventare la cassa peota un preciso punto di riferimento nell’economia della comunità locale.
Chi chiedeva soldi alla cassa peota lo faceva per spese mediche o per inizio o sostegno alle attività lavorative. Artigiani. Il nostro tessuto economico.
Io ne conosco di piccoli fenomeni che hanno acquistato il loro capannone con i schei dea cassa peota. E che hanno restituito ogni centesimo.
Conosco artigiani che hanno assunto i figli di quelli che gli hanno prestato soldi per aprire la ditta.
Poi il meccanismo si è inceppato.
E’ successo quando nelle casse peote c’erano tanti schei. Tanti.
Perché se all’inizio le popolane venessiane ci mettevano i schei per affittare la peota e andar a mangiare a Treviso nel corso dei tempi, i popolani ci mettevano milioni.
MILIONI.
Puliti e sporchi. Spesso quelli sporchi. Quelli che hanno fatto la fortuna e la grandezza del Veneto , locomotiva d’Italia di anni fa.
Tanti schei che si versavano in cassa peota il sabato pomeriggio, e di cui nessuno chiedeva la provenienza e che si prestavano senza tante domande ad interessi popolari.
Quando ci sono milioni è difficile restare vergini, restare legati ai valori, ai principi. Quando ci sono schei “ghe xe i ladri”
I ladri erano i pensionati che tenevano la contabilità delle casse peote della Riviera del Brenta e che scappavano coi milioni o li giocavano in spericolate operazioni per far fruttare al massimo i schei. Paesetti distrutti. Risparmiatori incazzati e lasciati al verde.
Pensionati che dovevano custodire il capitale messo da parte. Custodi del salvadanaio del paese. Salvadanaio sicuro a cui attingere per tirare avanti. Per pagare le bollette, per pagare qualche cura medica, per avere due soldi in tasca e vivere in attesa di ricevere dovuti pagamenti. E chi chiedeva un prestito l’ha sempre onorato.
Per questione d’onore.
Non restituire i schei alla cassa peota era un’onta impossibile da cancellare in un paesetto dove ci si conosce tutti.
Concetto, l’onore che oggi sembra non avere più significato.
Un commento
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questo articolo è molto interessante e getta una luce inedita sulla differenza tra l’idea di onore nelle comunità di una volta e l’individualismo della società moderna in cui viviamo. grazie Federica