Giustizia
Una scia di morti e feriti: i neonazisti tedeschi vanno a processo
Nella notte tra il 25 ed il 26 novembre 2015 Veneto Fronte Skinheads ha disseminato sagome che riproducevano dei cadaveri dipinti con il tricolore di fronte a diverse sedi della Caritas e del PD. Ha rivendicato di voler colpire chi aiuta i profughi, compiendo un disegno votato all’ “annientamento dell’identità italiana”. Il riferimento fa sobbalzare perché riecheggia il motto usato nel video impiegato nel 2011 dall’autoproclamatosi Nazionalsozialistischer Untergrund, in breve NSU, in Germania. Il gruppo neonazista che si è attribuito 10 omicidi e due attentati dinamitardi (ma probabilmente almeno un altro deve essergli ascritto). Nel filmato di rivendicazione a margine delle immagini delle vittime veniva infatti reiterato lo slogan “adesso sa come ci teniamo alla salvaguardia della nazione tedesca”. Ecco una ricostruzione dei fatti ed una sintesi dell’attuale processo penale.
I ragazzi di Winzerla
Negli anni novanta a Jena, allora DDR, i principali datori di lavoro erano lo Stato e la Carl Zeiss. Bande di skinheads si fronteggiavano con gruppi di punk per le strade. Ma se per molti skin l’ideologia era solo un pretesto per menare le mani tra un’ubriacatura collettiva ed un’altra; alcuni invece si radicalizzarono.
La caduta del muro e l’afflusso di mezzi della NPD li organizza. In questo contesto nasce nel 1994 la Anti – Antifa Ostthüringen confluita poi nel 1997 nel Thüringer Heimat Schutz letteralmente Difesa per la patria della Turingia. Dalle marce, volantinaggi e spukies, adesivi appiccicati di nascosto, qualcuno vuole passare ad azioni più eclatanti.
È il 14 aprile 1996 quando su un cavalcavia della A4 nella Saale viene appesa una bambola con una stella di Davide gialla e la scritta “ebreo” collegata con cavi a degli scatoloni con delle bombe finte. Le scritte “qui verrà impiccato chi non fa attenzione” e “prudenza bombe” come monito. Sull’autostrada sarebbe dovuto passare il convoglio con l’allora Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Tedesche, Ignatz Bubis. L’impronta del medio della mano sinistra lasciata su un cartone di Asti spumante condurrà gli inquirenti a Uwe Böhnhardt, ormai già noto come estremista di destra. Perseguito, la condanna sarà cancellata in appello grazie alle testimonianze di Uwe Mundlos, Ralf Wohlleben e Beate Zschäpe.
Suppergiù tre anni prima Böhnhardt era stato visto proprio con l’amico Uwe Mundlos camminare in pieno giorno nel suo quartiere Winzerla con un uniforme da SA o SS.
Se Uwe Böhnhardt poteva essere considerato una bomba ad orologeria; è invece paradigmatica la deriva verso destra di Uwe Mundlos. Un talento nella programmazione coltivato grazie al padre professore di informatica, pacifista e capellone, aveva assorbito dal genitore l’antipatia per il potere statale della DDR che non assegnava alla famiglia, con un figlio inabile, un appartamento abbastanza grande. Da una fascinazione per come le RAF sfuggivano ai rastrellamenti di polizia, divenne skinhead, ed in età scolastica creò un videogioco con la colonna delle marce del Terzo Reich in cui faceva più punti chi uccideva più ebrei.
Dopo una segnalazione il 6 ottobre la polizia rinviene nello stadio di Jena una cassetta di legno sul cui coperchio campeggia un cerchio con una svastica e la scritta “bomba” all’interno una tanica da 20 litri, del granito ed un tubo. Per questa volta ancora un ordigno finto. Le indagini coinvolgeranno tra gli altri Uwe Mundlos, Uwe Böhnhardt, Ralf Wohlleben e Beate Zschäpe.
Questi solo alcuni degli episodi che condurranno gli inquirenti a tenere gli occhi aperti su di loro.
Il Giorno X
Opera anche in Germania Blood & Honour. Si diffondono in modo clandestino copie del romanzo razzista ed antisemita The Turner Diaries di William L. Pierce, e del manuale Der Totale Widerstand (la resistenza totale) del maggiore svizzero Hans von Dach che elenca l’abc della guerriglia. Affascinati dal britannico Combat 18 ed il Field Manual di Max Hammer anche in Germania ci si cimenta in esercitazioni armate per prepararsi alla venuta del “Giorno X”, il collasso del sistema democratico da sostituire con il nazionalsocialismo.
Immagine postata dall’utente Zhenya Syrykh il 14 dicembre (anno non indicato) alle 6:57 am
su VK, il Facebook russo, largamente impiegato anche da neonazisti russi e tedeschi.
L’officina per le bombe
Il 26 gennaio 1998, dopo che Böhnhardt e Mundlos sono visti portare del materiale nel garage del primo, la polizia lancia una perquisizione.
Uwe Böhnhardt accompagna gli agenti, ma mentre questi armeggiano per aprire un box, per colmo subaffittato a Beate Zschäpe da un poliziotto, intravede la mala parata e se la svigna. Non vuole tornare in prigione, dove era stato sodomizzato con un manico di scopa.
Gli investigatori rinvengono quasi un chilo e mezzo di TNT, numeri di telefono ed un fascicolo della fanzine naziskin Sonnenbanner.
La discesa in clandestinità
Uwe Mundlos, Uwe Böhnhardt, e Beate Zschäpe, ormai diventati inseparabili, decidono di non farsi beccare. Ralf Wohlleben, che sarebbe presto diventato vice portavoce regionale della NPD in Turingia, per l’accusa è il primo ad aiutarli a fuggire. In realtà i 3 godono di molti aiuti muovendosi abbastanza liberamente tra Chemnitz e Zwickau, con regolari vacanze in camper a Fehmarn. Gli inquirenti daranno loro la caccia per oltre dieci anni senza acciuffarli. Gli avevano sotto il naso, mentre gli informatori li davano in Sud Africa.
Diventano Max, Gerry e Lise, inseparabile dai suoi due micini. I contatti con i camerati avvengono solo con chiamate cospirative a cabine telefoniche; coi vicini di campeggio intanto concordano di rivedersi in vacanza.
Per mantenersi all’inizio creano una versione nazista del Monopoly, dal nome Pogromly, irridente all’Olocausto. Realizzata in modo professionale, è distribuita con l’aiuto di simpatizzanti. Uwe Mundlos contribuisce poi a disegnare al pc un Bart Simpson riveduto in Skinson per delle magliette. A concerti i camerati, secondo alcune informative, fanno collette per i compagni in fuga. Böhnhardt riceve, col loro aiuto, anche 1.000 marchi dalla madre.
Brigitte e Jürgen Böhnhardt si incontrano ben tre volte con i fuggiaschi e cercano di convincerli a tornare sui loro passi -mercanteggiano anche un accordo con la procura di Gera- ma non li smuovono neanche dopo la prescrizione per l’esplosivo nel garage. D’altronde non mettono mai gli inquirenti sulle loro orme e non coinvolgono neppure i Mundlos. Non hanno buoni rapporti né con gli uni né con gli altri. I Böhnhardt vedranno il figlio l’ultima volta nel 2002. Ilona e Siegfried Mundlos per il canto loro ritengono che il loro rampollo sia stato traviato da Uwe Böhnhardt.
Nessuno dei genitori sospetterà la vera fonte di guadagno per i figli in 15 brutali rapine (solo due senza ricavarne refurtiva).
Una scia di morti e attentati
Per alcuni camerati non bastava più ricorrere “solo” ad atti piromani come a Mölln e Solingen nel 1992 e 1993, ma si doveva alzare il tiro sugli stranieri già integrati nella società tedesca.
Incominciano così una serie di omicidi e di attentati di cui non si trovano i responsabili. Che gli assassinii siano legati appare abbastanza presto chiaro, l’arma usata nelle prime 9 uccisioni è sempre la stessa. Le vittime poi sono principalmente sempre di origine turca. La stampa soprannomina le uccisioni infelicemente come Döner Morde.
La prima vittima è Enver Şimşek un grossista di fiori che viene freddato il 9 settembre 2000 a Norimberga. Poi tra Amburgo, Monaco, Rostock, Dortmund e Kassel, cadono: Abdurrahim Özüdoğru, Süleyman Taşköprü, Habil Kılıç, Mehmet Turgut, İsmail Yaşar, Theodorus Boulgarides, Mehmet Kubaşık, Halit Yozgat.
L’ultima uccisa è una poliziotta, Michèle Kiesewetter, raggiunta mentre fa una pausa con un collega nell’auto di servizio il 25 aprile 2007 ad Heilbronn. Come trofeo vengono sottratte pistole e le manette di ordinanza. Il suo compagno di pattuglia Martin Arnold sopravvive, ma con le schegge di un proiettile in testa, pur riemergendo dal coma ha solo ricordi sfuocati. Le indagini rivelano l’esistenza di poliziotti adepti del Ku-Klux-Klan.
In parallelo alla catena di assassinii una serie di attentati. Il 23 giugno 1999 una torcia con dell’esplosivo è abbandonata in una toilette del bar Sonnenschein di Norimberga. L’ordigno è ancora abbastanza rudimentale e non scoppia completamente, ma ferisce un inserviente diciottenne. Per dei piccoli precedenti, è il solo sospettato.
I terroristi ci riprovano ed a Colonia, nel negozio di alimentari nella Probsteigasse dei coniugi Malayeri di origini iraniane con 4 figli, tutti cittadini tedeschi, uno sconosciuto nel dicembre 2000 abbandona un cesto regalo con la confezione di un dolce natalizio. In gennaio la figlia diciannovenne Mashia la scorge dimenticata su una scrivania, e per curiosità socchiude il coperchio di latta. È investita da un’esplosione violenta. Per una serie di circostanze fortunate, tra cui il ritardo nell’innesco, sopravvive ma deve sottoporsi ad un’infinità di operazioni. Oggi è un medico.
I terroristi diventano più sicuri ed il 9 giugno 2004 piazzano nella Keupstrasse di Colonia, una via piena di negozi per lo più di cittadini turco-tedeschi, una bomba con 5,5 chili di polvere nera e centinaia di chiodi da falegname. L’intento è chiaramente di lasciare una scia di morte ma il bilancio miracolosamente è “solo” di 22 feriti. L’italo-tedesco Sandro D’Alauro è investito in pieno dall’esplosione, 4 chiodi gli si infiggono nelle carni, per lui inizierà un calvario. Come se non bastasse gli investigatori all’inizio pensano che possa essere colpevole, in ospedale lo tengono in isolamento, ed alle due di notte gli agenti piombano in casa dei genitori per portarne via gli abiti per la scientifica.
A destra si continua a non guardare.
Eisenach
L’epilogo il 4 novembre 2011 dopo la quindicesima rapina, un camper con i due Uwe viene individuato ad Eisenach. I due appiccano fuoco alla vettura e si sparano a vicenda senza cercare di ingaggiare un conflitto con gli agenti. Nella carcassa del mezzo gli investigatori trovano il denaro dell’ultimo furto, documenti falsi e le due pistole semi automatiche rubate come trofeo a Michèle Kiesewetter ed al collega.
Di Beate Zschäpe nessuna traccia, vaga per 4 giorni per costituirsi dopo il riconoscimento delle salme all’istituto di medicina legale. Secondo le ricostruzioni, in questo tempo telefona ai genitori degli Uwe, appicca il fuoco all’ultimo covo di Zwickau e spedisce i 15 DVD di rivendicazione dei crimini. Che il mondo sappia del NSU.
La rivendicazione
Giornali ed istituzioni ricevono un video che rivendica bombe ed omicidi: è montato professionalmente con i cartoni animati della Pantera Rosa e la musica della band neonazi Noie Werte. Il filmato contiene foto delle vittime che solo gli assassini hanno potuto scattare e raccapriccianti slogan in rima.
Il trio voleva gettare nell’insicurezza gli stranieri e non aveva lasciato sigle sul campo, il disegno del suo operato era chiaro però ai simpatizzanti. Nel marzo 2002 nel numero 18 della fanzine neonazista Der Weisse Wolf compare l’annuncio <Grazie mille al NSU, ha portato i suoi frutti 😉 La lotta continua>. Come una beatificazione nel 1999 il duo Eichenlaub canta una struggente ballata sui due Uwe dall’emblematico titolo Ihr hattet wohl keine andere Wahl (non avevate altra scelta) e le parole Der Kampf geht weiter, für unser deutsches Vaterland (la lotta continua per la nostra Patria tedesca) e nel 2010 la band Gigi & Stadt Musikanten pubblica il CD Adolf Hitler lebt (AH vive) con il motivo Die Döner Killer in chiara apologia degli omicidi.
Presbiopia a destra
Sempre esclusa la matrice xenofoba, ne esistevano però diversi indizi. Nel fascicolo di Sonnenbanner trovato nel garage della Zschäpe un articolo citava gli insegnamenti dal manuale di un maggiore elvetico, Hans von Dach: cellule da 3 a massimo 10 persone all’oscuro l’una delle altre, solo i capigruppo di quelle vicine potevano conoscersi, per non interferire o coadiuvarsi sul campo.
Ma come se non bastasse anche l’AISI aveva avvisato il Bundesamt für Verfassungschutz tedesco di aver raccolto voci del progetto di una cellula terroristica neonazista. Secondo fonti della televisione pubblica ZDF già nel 2003. Per certo da quanto emerge in un documento consuntivo del 14 dicembre 2011 presentato alla prima Commissione di inchiesta del Bundestag (nel novembre 2015 ha avviato i suoi lavori una seconda) i servizi italiani avevano raccolto l’informazione che ad un incontro internazionale tra neonazisti svolto in Belgio nel novembre 2002 era emersa l’esistenza di una rete europea di neonazisti militanti, in grado di compiere attività criminali attraverso cellule costituentesi spontaneamente, e che in particolare una di queste era sorta in Germania.
Lo stesso documento riporta che nel 2008 neonazisti sudtirolesi avevano discusso con omologhi tedeschi la possibilità di effettuare azioni esemplari anche in Italia contro cittadini non europei conducendo un esame dettagliato di mappe per individuare esercizi commerciali, quali chioschi di Kebab diventati luogo di incontro per residenti extracomunitari. I piani vennero sventati da non meglio indicate misure preventive di polizia indica il documento. Non è dato verificane altrimenti l’esattezza.
L’Antifa Infoblatt tedesco rivendica peraltro in un articolo del 12 gennaio di quest’anno di aver dato notizia poco prima del settembre 2000 di un incontro svoltosi vicino ad Oslo all’inizio del novembre 1999 tra neonazisti tedeschi, inglesi, svedesi e norvegesi legati a Combat 18 e Blood & Honour incentrato sul coordinamento di attività Anti – Antifa ed il terrore in clandestinità.
Non sarebbero stati indizi sufficienti per estendere le indagini anche nello spettro dell’estrema destra?
Ruolo del Verfassungschutz (servizi tedeschi a tutela della Costituzione) ed altre incongruenze
Tutta la vicenda per quanto minuziosamente ricostruita da indagini di almeno 6 commissioni parlamentari dei Länder -comprese quelle ancora in corso nel Baden Württemberg ed in Assia- ed 1 del parlamento nazionale, ha ancora molte zone d’ombra. Tanto che una seconda commissione d’inchiesta del Bundestag ha avviato i suoi lavori a novembre sostanzialmente riproponendo gli stessi quesiti che avrebbe dovuto chiarire la prima.
Le inefficienze strutturali emerse hanno comunque portato alla costituzione in Germania di un registro nazionale unico per i crimini neonazisti.
Il Presidente del Bundesamt für Verfassungsschutz Heinz Fromm (SPD) colpito dalla scandalo ha dovuto dare le dimissioni e così pure i suoi omologhi in Sassonia e Turingia, Reinhard Boose e Thomas Sippel.
Il Verfassungsschutz tedesco ha avuto almeno 6 informatori che gravitavano attorno al trio, ma non è riuscito a sapere nulla di loro. Per contro ha pagato profumatamente le sue fonti e ne ha difeso l’anonimato di fronte alla polizia, tanto da spingere Oliver Bendixen del Bayerischer Rundfunk a parlare di un rapporto di osmosi tra controllante e controllato. Tra questi ultimi spicca ad esempio il nome di Tino Brandt, alias Otto, attualmente in carcere per pedofilia, che ha ricevuto almeno 2000 marchi con cui finanziava mega feste ed il suo Thuringer Heimat Schutz. In busta paga c’era anche Michael von Dolsperg l’editore del Sonnenbanner. Tarif il suo nome in codice, un giorno dopo il venire alla luce dell’esistenza del NSU gran parte dei suoi incartamenti vennero precipitosamente triturati. Oggi vive indisturbato in Svezia.
L’agente reclutatore del Verfassungsschutz dell’Assia Andreas Temme è nell’internet caffè durante l’omicidio di Halit Yozgat il 6 aprile 2006. Sospeso ed indagato senza perdere lo stipendio, e poi definitivamente rimosso, ha negato a tutti i livelli di aver colto nulla. Una ricostruzione filmata fatta sul luogo del delitto mostra peraltro come incredibile che con la sua statura non abbia quantomeno scorto il cadavere dietro il bancone uscendo.
Tre testimoni trovati morti: l’informatore Corelli, al secolo Thomas Richter, legato al KKK e nella rubrica di Uwe Mundlos, deceduto a 39 anni nell’aprile 2014 per un diabete mai diagnosticato prima; l’ex neonazista Florian Heilig che diceva di sapere chi avesse ucciso Michèle Kieseweter, bruciato nella sua auto nel settembre 2013 e dato per suicida; la sua ex fidanzata, che si sentiva minacciata, morta per embolia a fine marzo 2015 appena un mese dopo aver testimoniato innanzi ai parlamentari del Baden-Württemberg. Tutte le morti sono state ricondotte a cause certe. La procura di Stoccarda però nel marzo 2015 deve riaprire d’urgenza le indagini sulla morte di Florian Heilig non appena emerge nella sua auto, data per vuota, c’erano una pistola ad aria compressa, un machete ed un mazzo di chiavi bruciate.
Poco chiaro peraltro anche come mai nel camper ci fosse un bossolo in più, stante che i fucili a pompa con cui Böhnhardt e Mundlos si sarebbero sparati a vicenda si svuotano solo all’atto della carica. Ma per quanto si sia speculato su un terzo uomo che li avrebbe giustiziati non ne è emersa prova. A rinfocolare le polemiche peraltro hanno giocato anche altre circostanze. Innanzitutto, in una ricostruzione televisiva con un automezzo di paragone, è stato evidenziato che se i cadaveri erano stesi nel corridoio, non si sarebbe potuto accedere al retro del mezzo per raccogliere le armi rubate ai poliziotti senza urtare i corpi, modificando la scena del crimine. Inoltre è cosa acclarata che il camper venne agganciato e trasportato per le indagini in un capannone della polizia: nel trasporto tutto si sarebbe giocoforza spostato. Infine foto fatte dai pompieri nei loro accertamenti prima che il mezzo fosse spostato, vennero sequestrate e mai annesse agli atti. Sono riemerse appena un mese fa assieme ad altri documenti dopo un’ispezione –che si indica sarebbe stata svolta con discrezione- nel presidio di polizia di Gotha.
Si arriva al processo
Dopo due anni di investigazioni a carico di almeno 14 persone il 6 maggio 2013 ha preso il via a Monaco di Baviera il primo processo per i crimini del NSU con 5 imputati, dei quali solo 2 incarcerati. Già gli esordi sono stati burrascosi non era stato assegnato posto alla stampa turca e si è dovuta rifarne la distribuzione. Presiede Manfred Götzl, lo stesso giudice che emise la condanna nei confronti del boia di Falzano Josef Scheungraber. Oltre 900 raccoglitori di documenti, 93 parti civili con 62 legali (come si dirà, dopo due anni scesi rispettivamente di un’unità), e 4 procuratori generali a rappresentare l’accusa, poi ridotti a 3, si contrappongono inizialmente ad 11 difensori aumentati questi invece a 14. A circa 2 anni dal suo avvio è già costato oltre 30 milioni di euro. Costi dilatati anche perché nel corso del suo dipanarsi il dibattimento ha subito panne.
Una di queste è derivata dall’ammissione di una parte civile inesistente. Per lucrare una doppia quota dell’indennizzo disposto dal Governo tedesco per le vittime dell’attentato della Keupstrasse, la madre di un ferito si è finta vittima ella stessa sotto altro nome. Una piccola truffa che ha gettato incresciosamente discredito su tutti coloro che vittime dell’attentato lo furono veramente. Peraltro -e fa allibire- venuta alla luce solo dopo due anni di dibattimento.
Gli imputati
Beate Zschäpe – La sfinge
Classe ’75, abbandonata dal padre rumeno è stata cresciuta più dalla nonna che dalla madre, con la quale non ha avuto un buon rapporto. Giardiniera diplomata. Testimoni l’hanno definita furba come un contadino ma non particolarmente politicizzata. Peraltro ci sono prove evidenti della sua militanza.
Per la procura parte integrante della cellula terroristica, che teneva la cassa del trio e ne curava l’immagine esterna, perpetuandone la leggenda tra i simpatizzanti. È accusata anche di incendio doloso e di tentato omicidio per aver appiccato il fuoco all’ultimo covo.
Non mostra emozioni, pare anzi avere assunto una maschera di facciata col sorriso, all’ingresso in aula, e per il personale di giustizia. Non fa una piega quando Ismail Yozgat, il figlio ucciso a Kassel, strilla straziato nella sua direzione “Perché avete ucciso il mio agnello?”.
Quando la moglie Ayse le lancia pacata un appello a parlare, ascolta seria, ma nulla di più. Solo quando in udienza sullo schermo di proiezione scorre un’immagine di uno degli Uwe, pare di vedere un’ombra nei suoi occhi, ma è un attimo.
Tace da due anni; ma ha concordato con il Senato giudicante dopo uno scambio avviato il 31 agosto 2015 attraverso i suoi due nuovi legali, che prenderà posizione sulle accuse e risponderà alle domande del Presidente del collegio; non invece a quelle delle parti civili. All’esordio del processo ha un trio di giovani avvocati, scelti forse per l’efficacia evocatoria dei loro cognomi: Heer, Stahl e Sturm (esercito, acciaio e tempesta); ma con essi da mesi non parla più. Ha invece ottenuto un quarto legale l’avv. Grasel, di nove anni meno di lei, ad affiancarli. L’unico con cui ancora parla. E successivamente un quinto, l’avv. Borchert, che deve ancora fare la sua prima comparsa in aula. I due nuovi difensori condividono l’ufficio nella evocativa Hess Straße.
Vestita quasi sempre con completo giacca e pantaloni, con il computer aperto davanti, sembra una donna d’affari ad una riunione. Approfitta di quasi tutte le pause per fare cruciverba; abitudine mutata dalla comparsa del suo quarto difensore preferendo ora per lo più parlargli e sorridere. Dall’avvio del processo volta le spalle ai fotografi ammessi prima delle udienze. I tre legali d’ufficio le facevano scudo, ma adesso solo il quarto difensore le sta in piedi di fianco; ha comunque recentemente ottenuto che le telecamere ci siano solo due volte al mese.
Un perito psichiatrico è stato incaricato di osservarla durante le udienze. Per tutto il mese di marzo si è proceduto un giorno di meno alla settimana per consentirle di recuperare le energie imputate allo stress carcerario. Un alleggerimento che, ex post, potrebbe essere stato concausa della preannunciata disponibilità a parlare ai giudici.
Ralf Wohlleben – Il piccolo Führer borghese
In carcere preventivo, 40 anni ex consigliere comunale per la NPD è l’unico a farsi difendere da avvocati notoriamente di destra: Nicole Schneiders, sino al 2003 sua sostituta alla presidenza della sezione di Jena della NPD, l’avv. Olaf Klemke e da quest’anno anche Wolfram Nahrath, trascorsi nella Wiking Jugend e già difensore della negazionista Sylvia Carolina Stolz. Ha fin qui deciso di non rispondere alle accuse.
Si ritiene sia stato il regista della permanenza in clandestinità del trio ed è accusato di concorso negli omicidi per aver procurato l’arma di 9 delitti una Česká 83, calibro 7,65 mm. Uomo di famiglia ha più volte al suo fianco la moglie. Si tengono mano nella mano come degli innamorati di Peynet. Non parla e non dimostra emozioni particolari di fronte alle descrizioni delle vittime. Una testimone l’ha definito uno psicopatico capace di forte violenza verbale verso i più giovani adepti costretti ad umiliarsi se sorpresi ad aver mangiato un Döner od ubriachi. La consorte peraltro lo guarda sempre teneramente anche durante questi resoconti e si fa scortare da guardaspalle.
André Eminger – L‘incorreggibile
35 anni non cela le sue simpatie, già fondatore di una Weiße Bruderschaft Erzgebirge ed editore, col fratello gemello Maik, del periodico Aryan Law and Order con chiari riferimenti al Ku-Klux Klan e The Order, il gruppo terroristico di Robert Jay Mathews. Ha tatuaggi più o meno in tutto il corpo, da un anno scarso anche sul dorso delle mani, e poche superfici di pelle ancora bianca. Sull’addome in inglese “die Jew die” (muori ebreo muori) su una spalla un soldato delle SS, sulla mano destra un teschio. Risulta abbia dato ai figli nomi di divinità germaniche. Non parla ai giudici, e nonostante le accuse di aver coadiuvato il trio a più diversi livelli è a piede libero e di tanto in tanto si vede a pranzo con i suoi amici. In aula spesso indossa una felpa con un piccolo 8 sul petto (la lettera H). Una volta è apparso con una con l’iscrizione di fedeltà delle SS “Bruder schweigen bis den Tod” (i confratelli tacciono sino alla morte) ed avvocati di parte civile hanno ipotizzato che potesse volesse subornare il teste alla sbarra ancorché quest’ultimo Thomas G. già Hammerskin, a sua volta con una felpa con sulla schiena una grossa aquila e la dicitura “Defenders of our freedom. Victory will be ours” (difensori della nostra libertà, la vittoria sarà nostra), probabilmente non ne aveva affatto bisogno.
Holger Gerlach – Il dissociato
Ha aiutato il trio dando documenti ed un’arma, anche se diversa da quella impiegata negli omicidi. Per questo rischia una pena massima di 10 anni e non di 15 come tuti gli altri coimputati.
All’avvio del processo ha letto una dichiarazione con la quale ha ammesso le accuse mossegli ma nulla di più e si è rifiutato di dare altre risposte. Uscito spontaneamente dal programma di protezione dei testimoni prima che gli fosse revocato, nelle pause legge sempre libri o e-book e prende appunti. Era stato arrestato in modo spettacolare con l’impiego di un elicottero.
Carsten Schultze – Il pentito
35 anni, nato a Nuova Dehli, omossessuale, alle spalle una carriera nella JN, il movimento giovanile della NPD. Ha materialmente comprato e consegnato l’arma di 9 delitti e recuperato su commissione documenti dall’appartamento di Beate Zschäpe. È l’unico che ha chiesto scusa ai familiari delle vittime. Ha anche rivelato l’attentato con la torcia che gli inquirenti non avevano ascritto al NSU. Anche se per le accuse rischia come quasi tutti gli altri una pena sino a 15 anni; probabilmente beneficerà del diritto minorile, e per la condotta processuale potrebbe sperare di cavarsela con la sospensione condizionale.
L’andamento del dibattimento
I difensori di Holger Gerlach ed André Eminger cercano più che altro di tenere i propri clienti lontani dall’attenzione. Anche se le parti civili hanno messo in dubbio la rispondenza di quello che ha dichiarato Gerlach datando la sua rinuncia alla militanza attiva nell’estrema destra, e messo a nudo che probabilmente faceva uso di droghe oltre al periodo da lui ammesso. Quelli di Ralf Wohlleben sono i più agguerriti, ma non sono riusciti a rendere poco credibile la ricostruzione della procura sulla via dell’arma dei delitti e la rete di assistenza prestata sin dalla fuga dal loro cliente. Meno incisivi i 3 difensori “originari” di Beate Zschäpe che sostanzialmente sembrano convinti che all’imputata possa essere ascritto solo l’incendio del covo ma nessun’altra responsabilità diretta non essendoci testimoni che l’abbiano vista con sicurezza su alcuno dei luoghi degli omicidi o delle rapine. Hanno comunque parzialmente rintuzzato l’accusa di tentato omicidio provandone una citofonata alla vicina, senza peraltro attendere risposta, ma ammettendo così che fosse sul posto all’atto del rogo. La loro linea difensiva è stata quella di evitare all’imputata di esprimersi su nessun capo d’accusa. Solo così l’onere della prova ricade completamente sull’accusa, una dichiarazione anche solo parziale può essere processualmente usata per giustificare conclusioni contro l’accusata anche sui punti sui quali ella non si sia espressa. Agli occhi degli osservatori sono gli unici difensori attivi dell’imputata, presentano istanze e controinterrogano i testi. Il ruolo del quarto difensore, l’avv. Grasel, e presumibilmente quello del quinto collega l’avv. Borchert, appare tuttavia -come anticipato sopra- aver determinato un cambio radicale di strategia.
Le parti civili combattono dall’inizio del processo per vincere le resistenze della Procura Generale accusandola a più riprese di non avere depositato tutti i documenti. I magistrati in tonaca purpurea replicano che si devono sviscerare solo i capi d’accusa. E qui si coglie la più grossa discrepanze di vedute. Nell’atto di rinvio a giudizio si ipotizza che il Nazionalsozialistischer Untergrund fosse un nucleo di sole 3 persone con una scia ristretta di fiancheggiatori.
Le parti civili hanno invece chiaramente messo in luce l’esistenza di una ampia rete di coadiutori: impossibile che le vittime e le vie di fuga siano state scelte senza tutta una cerchia di osservatori sul posto. E questa visione si impone talmente che a novembre ha aperto i lavori la seconda commissione d’indagine del Bundestag -cronologicamente già l’ottavo organo di inchiesta- anche col compito di mettere in luce tutti i possibili legami sul territorio.
La Corte ha fin qui mostrato di assecondare gli sforzi delle parti civili convocando una vasta serie di testimoni legati a Blood & Honour ed agli Hammerskin in Germania. Una scia di persone è già sfilata davanti ai giudici ma alle domande più rilevanti quasi tutti dicono sistematicamente di non poter ricordare i fatti. Gioca a loro favore la circostanza che è trascorso molto tempo, ma i più sono tutt’altro che credibili. Ciò nonostante nessuno è ancora stato perseguito per falsa testimonianza, o reticenza. Neppure Thomas G. che si è rifiutato di fare nomi sugli affiliati al network di Blood & Honour in Sassonia dicendo candidamente che “era contrario al suo sentire”. Götzl è severo ma clemente sovrano del processo. Alza sbigottito la voce quando il Prof Mundlos addenta una mela nel bel mezzo della sua testimonianza; ma neppure quando, rispondendo al perché non avesse chiesto direttamente al figlio se sapesse con chi si metteva, quegli sbotta in un insulto appena strozzato in gola Kleine Klugsch (piccolo pezzo di intelligentone di m.) scattano sanzioni per oltraggio alla Corte.
La strenua lotta per il diritto alla difesa di Beate Zschäpe
In un processo penale per terrorismo non è inaspettato che gli imputati cerchino reiteratamente di ricusare i giudici, lo è un po’ meno che si rifiutino di punto in bianco di parlare coi difensori d’ufficio come ha fatto Beate Zschäpe. Una vera telenovela con tre tentativi dell’imputata di liberarsi dei 3 difensori originari ed una denuncia penale contro di essi, tutti andati a vuoto; due istanze dei tre legali di rimettere il mandato, pure non accolte; e la nomina successiva dei due ulteriori difensori, prima Grasel e dopo alcuni mesi Borchert, che aveva peraltro già da tempo preso contatto con l’imputata in carcere, ad affiancare i colleghi; e l’ennesima censura ai giudici da parte della difesa del coimputato principale Ralf Wohlleben, ancora una volta cassata da altro organo giudicante.
La mancata ammissione ai difensori originari di gettare la spugna ha sostanzialmente due spiegazioni. Da un lato non si può ammettere che un accusato possa boicottare un processo smettendo di parlare al suo difensore, dall’altro un difensore d’ufficio è incaricato dal Tribunale e non dall’imputato ed ha il ruolo di assicurare lo svolgimento del processo. Nel caso specifico se il Senato permettesse ai tre difensori di abbandonare Beate Zschäpe tirandosi la porta dietro le spalle, il processo salterebbe e dovrebbe riiniziare da zero, non essendo materialmente possibile per i due nuovi legali conoscere tutti gli atti dopo due anni di causa.
L’ultima istanza di ricusazione dei giudici presentata dalla difesa del coimputato Wohlleben non era peraltro argomentata in modo peregrino, bensì incentrata sul fatto concreto che il Senato giudicante ha tenuto colloqui con i due nuovi difensori della coimputata non informandone gli altri tre, pur cosciente che con tutta evidenza l’imputata non parlava più con loro. Questione risolta in prima battuta dai magistrati con la considerazione che i due nuovi difensori avevano loro dichiarato che i colleghi erano al corrente dei mutati orientamenti della loro assistita, e non fosse loro onere verificare i rapporti esistenti all’interno del collegio difensivo. Opinione suffragata da altri giudici che hanno rigettato la ricusazione.
È dunque aperta la strada perché la Corte possa ascoltare ciò che vuole rivelare Beate Zschäpe. Una dichiarazione preannunciata ma procrastinata almeno all’8 dicembre quando il suo quinto difensore, l’unico che risulterebbe non a carico dello Stato, tornerà dalle ferie e farà per la prima volta la sua comparsa in aula. Sarà la 248ma udienza.
Senza speculare prima di aver conoscenza delle dichiarazioni dell’imputata, alcune considerazioni sono peraltro possibili. Dopo due anni di dibattimento è una svolta oltremodo tardiva per poter credibilmente spostare l’esito del processo. Che Beate Zschäpe fosse solo una ignara compagna di fuga di Mundlos e Böhnhardt pare poco plausibile se si ha nelle orecchie il clangore delle armi di cui erano dotati, posate sul bancone una dopo l’altra innanzi ai giudici. Un arsenale di 11 pezzi uguali a quelli rinvenuti semibruciati del covo di Zwickau, tra cui una mitraglietta con un silenziatore più lungo dell’arma stessa. Quanto poteva essere ingenua l’imputata per non vedere tutto quell’armamentario di cui credibilmente solo lei può aver cercato di cancellare traccia col fuoco? Come non porsi domande su da dove venissero i soldi con i quali facevano le vacanze e si riempivano a dismisura frigo ed armadio dei vestiti?
L’entourage (il vicino di sedia neonazista)
Il processo si svolge con la costante presenza di giornalisti di almeno una dozzina di testate tedesche ed alcune turche. Interesse c’è stato anche da cronisti greci, svizzeri e svedesi. Poi costantemente scolaresche e pubblico comune. Non possono mancare neppure i neonazisti; qualcuno pure già pregiudicato. Che pensare però che sia stato lasciato entrare un accompagnatore della signora Wohlleben con tatuato sul collo un pezzo di una canzone di destra “schlag den Feind” (colpisci il nemico)? In occasione del 40mo compleanno del marito il partito Die Rechte ha manifestato fuori dal palazzo di giustizia per la libertà dei detenuti politici nella BRD. (Spesso citata a destra per contrapporle tacitamente l’idea di un Reich ancora in vita, ancorché non operativo). Contestualmente in aula sedeva un gruppo, tra cui il gemello del coimputato André, cercano di festeggiarlo indossando la stessa maglietta blu con la scritta 40. Invano, l’udienza salta, ufficialmente, per malore di Beate Zschäpe. Ma se questa potrebbe catalogarsi meramente come una goliardata, per quanto fuori luogo, appare più grave che uno di loro porti orecchini con una svastica stilizzata. Sono double face, glieli fanno semplicemente girare.
L’apoteosi si raggiunge, per ora, alla 190ma udienza uno spettatore che sfoggia mani inanellate con un sole nero (un simbolo esoterico caro ai nazisti) si siede in prima fila di fianco ai giornalisti quasi a volerli intimidire, ha accompagnato il testimone Hendrick L. che ammette di aver incontrato Uwe Mundlos in clandestinità. Prima della fine dell’udienza anziché lasciare la sala devia e si avvicina al corrispondente della Freie Presse di Chemnitz per sibilargli provocatorio “Tutto bene?” e poi spararne ad alta voce l’indirizzo privato, non pubblicato su alcun elenco. Segno evidente che il reporter era stato pedinato od altrimenti controllato. Una chiara intimidazione, ma per la polizia monacense insufficiente a costituire una minaccia. Gli agenti raccolgono la denuncia ma, dopo averne preso le generalità per dover d’ufficio, lasciano andare l’aggressore. Di tutt’altra opinione i responsabili dello Staatsschutz di Chemnitz che hanno disposto la convocazione del giornalista per raccoglierne la testimonianza.
Post da VK dell’utente Will Frei il 22 giugno 2013 alle 9:16 pm.
Il nome curiosamente riecheggia lo slogan Frei Wolle, libertà per l’imputato Wohlleben, soprannominato Wolle.
Conclusioni
In questo clima la cronaca tedesca consegna ripetutamente fatti allarmanti legati alla galassia dell’estrema destra: il sindaco onorario di Tröglitz in Sassonia Anhalt si è dimesso non sopportando che la NPD marciasse sotto le finestre di casa sua; quelli di Orlatal e di Magdeburgo, così come la vicepresidentessa del Bundestag Petra Pau, dichiarano di aver ricevuto minacce di morte per l’impegno nell’accoglienza dei richiedenti asilo. Un reporter a Dortmund si è preso una pietra lanciatagli in testa da un gruppo neonazista. La cronista della ZDF è stata intimidita mentre cercava di raccogliere interviste ad una marcia della HoGeSa , Hooligans gegen Salafisten (Hooligans contro i salafisti), gruppo nominalmente anti salafista permeato, come hanno colto le telecamere, da numerosi estremisti di destra. Dati statistici relativi ai crimini di matrice xenofoba registrano incrementi in diversi Länder nel 2014. Ancora irrisolto il caso di un giovane turco ucciso a Berlino tre anni fa, il razzismo pare l’unica causa plausibile.
Mentre nel processo per i crimini del NSU gli imputati non parlano, salvo adesso attendere le preannunciate rivelazioni di Beate Zschäpe, ed i testimoni legati agli 88 di Chemnitz e Blood & Honour non vogliono ricordare, un avvocato di parte civile confida fuori dai denti che paventa che il processo non servirà a fare piena chiarezza, <tutta la verità non si saprà mai, se non forse tra 15 anni> dice. Sembra dargli ragione che si riaprano solo quest’anno le indagini per l’attentato all’Oktoberfest del 1980 sulla base di nuove testimonianze.
All’apertura del dibattimento l’imputato Carsten Schultze ha dichiarato che si sapeva che per necessità in Italia si poteva fare riferimento a Forza Nuova. D’altronde anche nel Sonnenbanner trovato nel garage di Jena nel 1998 nell’ ampio elenco di organizzazioni di riferimento spiccavano già due indirizzi italiani a Genova ed a Milano. Con questo background dovrebbe far riflettere come si affastellino tracce evidenti di contatti tra neonazisti italiani e tedeschi nell’arco degli anni. A mero titolo di esempio: delegazioni di Lombardia Skins e del Veneto Fronte Skinhead nel 2004 erano a Wunsiedel all’ultima marcia apertamente in memoria di Rudolf Hess. Band italiane di estrema destra hanno partecipato a concerti in Germania, da ultimo i Gesta Bellica a Torgau il 13 settembre 2014 (vedasi Deutsche Bundestag Drucksache 18/3034), e viceversa gruppi tedeschi come i Lunikoff (già Endlosung, cioé soluzione finale) alla Hammerskinfest della Skinhouse di Bollate nel 2014 ed ancora alla Hammerskinfest nel milanese di fine novembre 2015 secondo quanto riporta il quotidiano Repubblica avrebbero preso parte 7 torpedoni provenienti dalla Germania ed altri da altri Paesi europei. Interscambi ancora in meetings a San Martino in Passiria (BZ) nel 2007 e Caldaro (BZ) nel 2009. Se non lo avessero fermato, intercettazioni rivelano che anche Holger Gerlach era stato invitato da un amico ad andare alla Hammerskinfest di Bollate prima che lo arrestassero.
Ma in Italia non si parla quasi del NSU ritenendolo un esclusivo fenomeno tedesco e la Lega va sotto braccio a Casa Pound. Della strage alla stazione di Bologna d’altronde non ci si ricorda quasi più. Ed infine, tornando all’apertura di questo pezzo, il Veneto Fronte Skinheads alcuni giorni fa ha disseminato sagome riproducenti dei cadaveri dipinti con il tricolore rivendicando di voler colpire chi contribuisce all’ “annientamento dell’identità italiana”. Non si tratta di patrioti, anche se ambiscono a dipingersi tali, la sigla Veneto Fronte Skinheads appariva già nel numero 2 del Blood & Honour Magazine del 1986 nel gotha della galassia neonazista.
Tanto generalizzato odio per i mussulmani d’altronde qualche volta trova un freno nella convenienza delle alleanze. Guardando al passato si potrebbe fare l’esempio della banda Hoffmann, dalle cui fila emerse l’attentatore dell’Oktoberfest (o più probabilmente gli attentatori; come già accennato le indagini sono state riaperte quest’anno dopo 35 anni perché la Procura Generale non crede più alla tesi dell’opera di un singolo). Il gruppo aveva appoggi nei campi di addestramento dell’OLP in Libano. Ma anche ai giorni nostri stante a quanto hanno rivelato Robert Bongen e Julian Feldmann del programma Panorama della tv pubblica tedesca ARD. Hanno scoperto che l’ISIS, nel terzo numero del proprio notiziario propagandistico on line Dabiq diffuso da quest’estate, indica un contatto e-mail al proprio Al-Hayat Media Center che è fornito dal servizio internet 0x300. Quest’ultimo è creato da un gruppo neonazista della regione della Ruhr come mezzo di scambio sicuro attraverso un server negli USA. Non registra gli indirizzi IP degli utenti ed è perciò impiegato anche da diversi altri gruppi neonazisti tedeschi. I due autori indentificano come figura chiave dell’estrema destra nella Ruhr e gestore di 0x300 Dennis Giemsch, un informatico 29enne consigliere comunale a Dortmund del partito neonazista Die Rechte. Ne è il rappresentate regionale nel Nord Reno Westfallia. Il suo partito definisce l’ISIS come gruppo islamista terrorista “creato dall’occidente ed il Mossad israeliano”.
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