Terrorismo

Terrorismo e lucidità: per cominciare, non è la terza guerra mondiale

12 Gennaio 2015

È verosimile che gli autori della carneficina alla redazione di Charlie Hebdo non volessero solo far tacere quelle voci, perché altre prenderanno il loro posto, ma anche seminare terrore, spavento, sospetto nella società francese ed europea, al fine, presumo, di stimolare conflitti interreligiosi o interetnici dai quali loro progettano di ricavare un vantaggio politico, morale o materiale (il terrorismo è anche una professione, per chi sopravvive all’azione). Se questo è vero, il loro principale avversario è la nostra lucidità. Perché quei conflitti possono nascere solo da una nostra reazione sbagliata. Ma non tutte le reazioni ai fatti di Parigi sono state lucide, incluso in Italia.

Lucia Annunziata, direttore di Huffington Post, scrive: «Questo succede oggi a Parigi, questo succederà in tutti i nostri paesi. Prendere atto di questa realtà, dirci che la guerra ci ha raggiunti, di nuovo, dopo settanta anni, non è per nulla semplice».

Non è per nulla semplice perché non è vero. Per fare la guerra bisogna essere in due, come per il tango: e noi possiamo scegliere se accettare o rifiutare la guerra che i terroristi ci propongono. Non siamo la Polonia del 1939, la Francia e il Belgio del 1940, o l’Unione Sovietica del 1941, per le quali rifiutare l’opzione militare equivaleva a capitolare: noi possiamo scegliere se accettare la sfida a questo duello o lasciarla cadere, dichiarando lo sfidante indegno di attenzione e meritevole solo della legge penale. Non sarebbe lucido accettare la guerra voluta dai terroristi di Parigi, o dai loro predecessori di New York, Londra e Madrid. La ragione meno solida è la più evidente: siccome sono i terroristi a volere questa guerra, e siccome si dichiarano nostri avversari, è molto probabile che la guerra sia nel loro, e non nel nostro, interesse.

E invece Annunziata prosegue così: «Cominciamo a pensare a nuove politiche, ad interventi di difesa seri. Chiediamo alla politica di fornirci un piano di preparazione militare, un progetto di messa in sicurezza chiaro…».

Non serve nessuna preparazione militare: al massimo un poco più di attenzione della polizia (ma non troppa: un attacco riuscito non significa che le difese non funzionano, e non accetterei il Leviatano in cambio del miraggio della sicurezza totale). Ciò che serve è mantenersi saldi sui nostri principi, e magari riflettere più a fondo su come meglio combinare l’integrazione delle crescenti minoranze di origine mediorientale e nordafricana con l’intransigenza sulle libertà fondamentali, su temi come la laicità dello stato, ad esempio, in modo da aiutare quelle minoranze a vedere quanto insensata sia l’opzione dei terroristi. Combinare integrazione e intransigenza è difficile, e dubito esista un equilibrio valido sempre e ovunque: occorrerà continuamente riflettere e rivedere le soluzioni adottate. Ma dobbiamo fare questo sforzo non solo perché è giusto, ma anche perché ciò che i terroristi vogliono suscitare è proprio una nostra reazione ostile a quelle minoranze, che sola darebbe credibilità al loro messaggio.

Ho preso ad esempio l’articolo di Annunziata perché l’avevo sottomano ed era facile tagliare e incollare qui le sue frasi, così nette. Lei peraltro argomenta la propria posizione meglio di quanto le mie due citazioni possano lasciar credere, e meriterebbe una risposta più articolata: ad esempio perché Umberto Eco – che pure davvero should know better – dice esattamente le stesse cose: «c’è una guerra in corso e noi ci siamo dentro fino al collo, come quando io ero piccolo e vivevo le mie giornate sotto i bombardamenti… Con questo tipo di terrorismo, la situazione è esattamente quella che abbiamo vissuto durante la guerra».

Più diffusa è la versione deteriore di queste tesi, che trae dalla metafora della guerra la sua naturale conseguenza. Il Corriere, in particolare, è tornato a Oriana Fallaci (a «Oriana», per usare le loro parole), che già aveva irresponsabilmente eretto a principale commentatrice dell’11 settembre e del seguito. Il che mi pare triplicemente assurdo: perché un’intervista del 1970 a una terrorista palestinese secondo la quale i neonati israeliani sono obiettivi legittimi (Sabato 10 gennaio) non getta alcuna luce sugli eventi di questa settimana, e serve solo ad accrescere l’eccitazione; perché quella linea di pensiero ha prodotto l’invasione dell’Iraq, per citare il caso più grave, provocando una sequenza di eventi il cui esito provvisorio ha per nome «ISIS»; e perché, in ogni caso, i nemici dell’Occidente hanno sempre avuto la scortesia di trascurare l’Italia.

Infatti nostri alfieri dello scontro di civiltà devono aver patito non poca frustrazione a non poter mostrare nessuna ferita – e nessuna medaglia, francamente – ai loro corrispondenti americani, inglesi, francesi. E allora appena ne hanno l’occasione compensano con un ardore che a Parigi, Londra e New York rischia di apparire fuori luogo. Leggete Piero Ostellino, per esempio. Ma anche Emanuele Severino, che sempre sul Corriere di Sabato 10 gennaio ci rassicura: «L’Occidente non ha perso», e in ogni caso, se anche «l’Islam» vincesse, sarebbe poco male perché presto diventerebbe come noi.

Per fortuna. Ma allora converrà prima chiarirsi, tra noi e i saraceni, su cosa esattamente sia l’Occidente. Severino certo lo sa, ma il lettore medio del Corriere forse no. Ad esempio: è Atene o Sparta? Kant o Goebbels? Jean Moulin o Jean Marie e Marine Le Pen? Dick Cheney, che prima autorizzò e ora difende l’uso della tortura; Barack Obama, che l’ha vietata e ufficialmente rivelata ma non intende punirla; o le associazioni per i diritti umani e le libertà civili, che gli chiedono di processare i torturatori? È ovvio che tutto questo è Occidente. È meno ovvio come una cosa così multiforme possa essere in guerra una cosa altrettanto polimorfa come «l’Islam» (la maggioranza dei funzionari della banca centrale di uno stato musulmano – la Malesia – sono donne, ad esempio: funzionarie, non segretarie).

È Occidente, tra l’altro, anche la pagina 9 del Corriere del 10 gennaio. Intitolata «I super agenti in azione», quella pagina è dominata dalle foto di due agguerriti gendarmi, con le freccette che legano le loro dotazioni alle didascalie illustrative. Sembra la pagina di una rivista per appassionati di armi. Per spiegare i fatti bastava dire «agenti speciali»: il resto andava da sé. E invece il Corriere ha voluto rassicurare il lettore che anche i nostri sono dei duri, non solo i terroristi. Una delle didascalie con la freccetta dice «Coltello da combattimento»: perché al lettore poteva restare il dubbio che l’attrezzo fosse invece da caccia, da arrosto, da funghi, tagliacarte, svizzero, scenico rientrante, o d’altro genere mal adatto alla guerra coi nemici dell’Occidente.

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