Terrorismo

Rouen, il nuovo format del terrorismo di base. E noi, adesso, cosa facciamo?

26 Luglio 2016

Un terrorismo islamico a forte impatto mediatico, a basso investimento economico e di addestramento, che non ha probabilmente più nemmeno bisogno di strateghi e centrali, perché la diffusione del format avviene per contagio comunicativo. Una sorta di federalismo dell’integralismo violento che continua ad avere il suo territorio d’elezione in Francia, ma che facilmente può passare tutti i confini, proprio perché vive di parole e immagini che corrono veloci. L’assalto alla chiesa di Rouen, lo sgozzamento del parroco 86enne, Jacques Hamel (nella foto), ci dice che entriamo ufficialmente in questa fase “nuova”. Perché affittare un tir e studiare le cartine di una parata nazionale richiede pur sempre una certa preparazione, così come assaltare un locale durante un concerto. In entrambi i casi, a patto di rinunciare a una certa dose di libertà e velocità, sono poi possibili contromisure di polizia. Controlli, piantonamenti, attività di intelligence a patto di esserne capaci. Ma una Chiesa di provincia per definizione non è “proteggibile”. Nessun obiettivo “marginale”, in realtà, è proteggibile con sistemi di sicurezza classici, se ad armare le mani e le anime dei terroristi è la forza di un messaggio distruttivo che risulta più fascinoso ed efficace di uno dei suoi infiniti opposti.

Che fare, insomma, la parte più complicata. Dire “facciamo come Israele”, ad esempio, non vuol dire quasi niente, che anche Israele potrebbe poco se alcuni suoi residenti regolari o cittadini, tutti i giorni, prendessero dei coltelli e andassero ad ammazzare nei negozi o nei parchi giochi. Possiamo controllare gli ingressi di tutti i locali e i ristoranti, possiamo restringere tutte le libertà costituzionali che vogliamo, ma contro il terrorismo che può raggiungere le singole anime, le singole menti, e armare le singole mani, possiamo davvero fare poco.

La soluzione salviniana (fuori tutti i musulmani dall’Europa, per dirla in breve), non è una soluzione, perché radicalmente contraria ai principi di cittadinanza ed eguaglianza cui l’Europa si ispira fin dalla sua fondazione. Non è praticabile, e lo sa bene chi la predica per guadagnare qualche punto alle elezioni. L’invito, pur comprensibile, alle comunità islamiche alla collaborazione e all’isolamento di certi soggetti e di certe pulsioni, rischia di rafforzare l’idea che sia l’islam in sè il problema, mentre è proprio una battaglia all’interno dell’Islam che sta generando queste ricadute a casa nostra, mentre a casa loro, dove si pretende di aiutarli, la stragrande maggioranza delle vittime dell’integralismo è di fede e tradizione musulmana. L’antico adagio marxiano, che chiede di rimuovere alla radice il male, e la radice sarebbe la mancata riuscita dei processi di integrazione, finisce con l’alimentare il dibattito sociologico mentre nel breve periodo bisogna rassicurare una società europea comprensibilmente sempre più vicina al baratro della nevrosi.

Qualcosa però possiamo fare noi, tutti noi. Sforzandoci di servire la verità dei fatti. Chiamando terrorismo di matrice islamica ciò che terrorismo è. E negando che lo sia, con forza, quando non lo è. Restituendo così le giuste proporzioni a questo dramma, rispettando tutte le vittime di ogni violenza, condannando con forza chi semina odio, chi in nome del Corano lo richiede quasi come un dovere, ma anche proteggendo dal fuoco che brucia tutte le erbe del fascio chi faticosamente, ogni giorno, combatte su un fronte assai più pericoloso del nostro.

È poco, pochissimo, direte voi. Avete ragione. Ma non litigare, non rischiare il sangue amaro quando serve, è già un omicidio. La nostra Europa inizia così, con chi combatteva dalla parte giusta contro i fascismi. I fascismi di oggi si chiamano terrorismo islamico ed estremismo xenofobo. Sono i nostri nemici.

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