Terrorismo
Restiamo Umani. Una considerazione sulla marcia parigina dell’11 gennaio 2015
Nel marasma di polemiche nate in seno alla manifestazione parigina dell’undici gennaio, mi permetto di esprimere un parere personale di chi quella marcia l’ha vissuta, e ha deciso di andarci perché manifestare contro un’azione piena di risvolti simbolici come l’attacco al giornale Charlie Hebdo è sembrato quantomeno doveroso.
In primis, credo sia utile distinguere tra i fini mediatici e politici di questa manifestazione, e i fini dei privati cittadini che sono scesi in piazza. Il fatto che nel corteo abbiano sfilato i rappresentanti dei paesi meno democratici del mondo, a partire dal Premier israeliano, è certamente lo specchio della strumentalizzazione politica di questa marcia, che va contro i principi per cui è stata concepita. In secondo luogo, le ipotesi che ho letto, soprattutto sui media italiani, della teoria del complotto, del fatto che probabilmente ci siano “delle manine non islamiche” dietro questo attentato, come asserisce Giannuli, possono essere vere, ma a mio avviso poco hanno a che fare con il fatto che la Francia intera, e quelli che ci vivono e francesi non sono, ha deciso insieme di scendere in piazza per dire Je suis Charlie. Tornerò più avanti su ciò che a mio avviso rappresenta questa frase.
Io sono partita dal 92esimo arrondissement, periferia di Parigi, e ho faticosamente raggiunto dopo un’oretta circa Saint Denis. I treni erano sovraffollati, per non parlare delle metropolitane. Sovraffollati di giovani, di vecchi, di famiglie con bambini, di islamici e senegalesi, di tutti i gruppi etnici che popolano questa grande capitale. Già sui mezzi pubblici, prima di arrivare alla manifestazione, ho avvertito una solidarietà che non avevo mai provato in vita mia. Una solidarietà fatta di piccoli gesti. Darsi una mano per riuscire a stare in piedi e non soffocare nella folla. Sorridersi mentre ci si ritrova schiacciati uno sopra l’altro. Chiedere e sentirsi chiedere in continuazione “vous êtes bien?” dato che la quantità di persone e lo stress conseguito dall’essere letteralmente privi di uno spazio proprio per ore ed ore ha sortito le sue conseguenze. Nessuno pensa che sia importante l’umanità dimostrata dai cittadini in quelle ore, ma io credo sia stata la cosa fondamentale che ha unito quel milione di persone quel giorno tra le strade di Parigi.
Arrivati a destinazione, ben lontani da Republique, ho visto un’unione compatta e solidale. Ho letto cartelli come “non dobbiamo avere paura”, “io sono islamico, non sono un terrorista”, “non bisogna cedere, bisogna aiutarsi”. Ho visto vecchiette molto vecchie sfoggiare delle matite come copricapo. Ho sentito molti discorsi sulla libertà, la libertà di espressione, di pensiero, di manifestare. Ho sentito molte persone consapevoli del fatto che questo avvenimento porterà un’ondata di islamofobia in Francia, già fortemente fomentata dalla Le Pen, e che proprio per questo bisogna rimanere uniti e Non avere Paura. È questo il punto centrale della questione a mio avviso. È questo il senso che io ho dato a questa marcia. Siamo scesi in piazza per dire no alla paura. Perché davanti ad avvenimenti del genere, il primo sentimento che attraversa tutti è la paura. Dell’incertezza del futuro. Di chi ha immaginato questo attentato e di come, se e quando, potrebbe rifarlo. Di chi sono i veri bersagli di questo attacco, se gli europei, la libertà di espressione, il modello di democrazia occidentale, o quant’altro. Rispetto ai politici e a delle scelte politiche che fomentano l’odio e la divisione, questa marcia è stata per me il simbolo dell’unione e della forza democratica. Perché la democrazia non è un concetto astratto. La democrazia è la consapevolezza di poter scendere in piazza a urlare “Io sono libero”. E per perpetuare la democrazia, per sentirsi uno stato in cui questo sentimento regna sovrano, come in Francia, bisogna gridarlo a gran voce. Perché un conto è pensarlo, un conto è assumerlo e rendere sé stessi manifesti di questo pensiero. Essere liberi significa in primis sentirsi liberi. E i francesi lo sono.
In Italia la democrazia non esiste non solo perché abbiamo un governo composto da fantocci ignoranti che pensano solo ad arricchire le proprie tasche, ma perché i cittadini non ci credono. Perché quando gli operai, gli studenti, i controllori, le forze dell’ordine scioperano, nessuno li ascolta. Nessuno prende in considerazione i loro diritti. I cittadini non sono né solidali né partecipi. La maggior parte delle volte puntano il dito contro chi scende in piazza e trovano sempre un motivo per criticarli. Questa non è democrazia, questo è egoismo, e l’egoismo è l’antitesi del sentimento democratico.
Je suis Charlie significa a mio avviso, credere come fondamentale il diritto alla libertà. Di espressione, di satira, di manifestare, di avere spirito critico. Molti hanno rimproverato i vignettisti di essersela cercata in quanto la loro satira colpiva, senza esclusione di sorta, qualsiasi tipo di religione. Ebbene mi permetto di ricordare a queste persone che il concetto metafisico di Dio è un conto, ma la comunità religiosa che compone la Chiesa Cattolica, quella protestante, l’Islam e tutte le altre religioni è un’altra. Quest’ultima è fatta di persone, e le persone, al contrario di Dio, per chi ci crede, fanno delle scelte ed esprimono delle opinioni che influenzano direttamente la vita politica e civile dei cittadini. Fare satira sul Papa non significa fare satira su Gesù Cristo, ma sul rappresentante di Dio in terra e delle sue scelte, etiche, morali e politiche. Quando Papa Ratziger ha dichiarato che il matrimonio gay è un offesa alla famiglia e alla morale non ha espresso il parere di Dio, ma il suo. E che Charlie Hebdo faccia satira su questo è un Dovere, perché la satira è uno strumento di critica, ed è Necessario e Vitale in uno stato democratico fare satira per mantenere vivo lo spirito critico, per innestare il beneficio del dubbio, in una parola per non diventare tutti dei pecoroni.
È stato per me di grande sconforto leggere le parole di chi, con leggerezza e con il solo obiettivo di andare contro corrente, ha giudicato frettolosamente chi ha partecipato a questa marcia, prendendo in considerazione solamente i risvolti mediatici e politici della stessa. Da un lato li ringrazio, perché la critica come prima ho detto, è una delle armi che abbiamo per mettere in discussione e creare coscienza civile. Dall’altra credo che prima di giudicare e sparare a zero, chiamandoci falsi e ipocriti, bisognerebbe restare umani. Questa bellissima frase è stata pronunciata da Vittorio Arrigoni, un eroe della libertà e dei diritti civili. Restare umani pensando che non ogni atto manifesto nasconde una barbarie e un’ipocrisia, ma che può essere sintomo di genuina e semplice bontà e solidarietà. Sembra incredibile in questo mondo che si faccia qualcosa spinti da sentimenti sinceri, eppure la marcia di Parigi per me è stata proprio questo. Espressione di un sincero dolore, di un sincero sconforto, di un sincero terrore. L’arma per combattere questi sentimenti negativi -che possono sfociare in ben peggiori manifestazioni di odio e xenofobia- è restare uniti e umani. Proprio com’è successo l’11 gennaio. E chi c’era ve lo potrà raccontare. Un conto è ciò che vi dicono i giornali e la televisione e un conto sono i sentimenti che si vivono in prima persona. L’autenticità di questi ultimi non potrà venir distrutta, nemmeno dal miglior indottrinatore dei popoli.
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