Filosofia
René Girard, la rivalità mimetica e l’Islam
René Girard, filosofo e antropologo recentemente scomparso: ciò che è in gioco oggi è una rivalità mimetica in scala planetaria.
Il terrorismo è agitato da un desiderio esacerbato di convergenza e rassomiglianza con l’Occidente. L’Islam ci sottopone alla sfida un tempo intrapresa dal marxismo. Il suo rapporto mistico con la morte ce lo rende più misterioso ancora. Un’intervista allo scienziato sociale René Girard apparsa su “Le Monde” del 5 novembre 2001, due mesi dopo l’attacco alle torri gemelle.
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La sua teoria della “rivalità mimetica” può essere applicata all’attuale crisi internazionale?
L’errore di sempre è di ragionare secondo le categorie della “differenza”, mentre invece la radice dei conflitti è piuttosto quella della “concorrenza”, la rivalità mimetica tra gli esseri, i Paesi, le culture. La concorrenza, ossia il desiderio di imitare l’altro per ottenere la stessa cosa che ha lui, all’occorrenza anche tramite la violenza. Senza dubbio il terrorismo ha radici in un mondo “differente” dal nostro, ma ciò che suscita il terrorismo non è da ricercare in questa “differenza” che lo allontana sempre più da noi e ce lo rende inconcepibile. È al contrario da ricercare in un desiderio esacerbato di convergenza e rassomiglianza. I rapporti umani sono essenzialmente dei rapporti di imitazione, di concorrenza. Ciò che abbiamo oggi sotto gli occhi è una forma di rivalità mimetica in scala planetaria. Quando ho letto i primi documenti di Bin Laden ed ho riscontrato i suoi accenni alle bombe americane cadute in Giappone, ho capito ad un tratto che il livello di riferimento è il pianeta intero, ben al di là dell’Islam. Sotto l’etichetta dell’Islam c’è una volontà di collegare e mobilitare tutto un terzo mondo di frustrati e di vittime nei loro rapporti di rivalità mimetica con l’Occidente. Ma nelle Torri distrutte lavoravano sia stranieri che americani. E per l’efficienza, la sofisticazione dei mezzi impiegati, la conoscenza che essi avevano degli Stati Uniti, gli autori degli attentati non erano anch’essi un po’ americani? Siamo in pieno mimetismo.
“Lungi dal distanziarsi dall’Occidente lei scrive nel suo ultimo libro non possono impedirsi di imitarlo, d’adottare i suoi valori senza confessarselo, e sono tutti ossessionati quanto noi dalla riuscita individuale e collettiva”. Occorre allora capire che i “nemici” dell’Occidente fanno degli Stati Uniti il modello mimetico delle loro aspirazioni, sopprimendolo all’occorrenza?
Questo sentimento non è delle masse ma delle élite. Sul piano delle fortune personali si sa che un uomo come Bin Laden non ha nulla da invidiare a nessuno. E quanti capi di partito o di fazione sono in questa situazione intermedia , identica alla sua? Ricordiamoci di Mirabeau all’inizio della Rivoluzione Francese: ha un piede in una parte e uno nell’altra, e proprio per questo il suo risentimento si acuisce ancor più. Negli Stati Uniti gli immigrati si integrano facilmente, mentre altri, che pure hanno una riuscita brillante, vivono tuttavia in una lacerazione e in un risentimento permanente. Perché sono ricondotti alla loro infanzia, a delle umiliazione e frustrazioni ereditate dal passato. Questa dimensione è essenziale, in particolare presso i musulmani che hanno una tradizione di fierezza e uno stile nei rapporti individuali ancora di stampo feudale.
Ma gli americani dovevano essere i meno sorpresi da ciò che è successo, visto che vivono in continuità questi rapporti di concorrenza.
L’America in effetti incarna questi rapporti mimetici di concorrenza. L’ideologia liberista ne ha fatto la soluzione assoluta. Efficace ma esplosiva. I suoi rapporti di concorrenza sono eccellenti a patto di uscirne vincitori, ma se i vincitori sono sempre gli stessi , allora un giorno o l’altro i vinti rovesciano il tavolo da gioco. Questa concorrenza mimetica, quando è infelice, fuoriesce sempre, ad un momento dato, in forma violenta. Sotto questo aspetto è l’Islam che oggi pone la sfida un tempo del marxismo. “Noi vi seppelliremo”, diceva Krusciov agli americani. E c’era un’intenzione bonacciona in queste parole…Bin Laden è più inquietante del marxismo, dottrina dove noi possiamo rintracciare una teoria della felicità materiale, di prosperità e di successo non troppo distante da ciò che s’è visto in Occidente.
Cosa pensa dell’ attrazione per il sacrificio dei kamikaze dell’Islam? Se il cristianesimo è il sacrificio della vittima innocente, si spingerebbe lei ad affermare che l’Islamismo spinge al sacrificio e che l’Islam è una religione sacrificale, nella quale si rinviene questa nozione di “modello” che è al centro della sua teoria mimetica?
L’Islam intrattiene un rapporto con la morte tale che mi convince sempre più che questa religione non ha nulla a che fare con i miti arcaici. Un rapporto con la morte che, da un certo punto di vista, è più intenso di quello che osserviamo nel cristianesimo. Penso all’agonia del Cristo: «Padre mio perché mi hai abbandonato? (…) Allontana da me questo calice». Il rapporto mistico dell’Islam con la morte ce lo rende più misterioso ancora. All’inizio gli americani presero i kamikaze islamici per dei “cowards” (codardi), ma ben presto hanno cambiato parere.Il mistero del loro suicidio ispessisce il mistero della loro azione terrorista. Sì, l’Islam è una religione del sacrificio nella quale ritroviamo anche la teoria mimetica e del modello.Non mancavano candidati al suicidio mentre già il terrorismo sembrava destinato a fallire. Immaginate allora cosa succede oggi che sembra, se posso dirlo, aver avuto successo. È evidente che nel mondo mussulmano questi terroristi kamikaze incarnano un modello di santità.
I martiri della fede in Cristo sono tuttavia, dicono i Padri della Chiesa, la “semenza” dei cristiani…
Sì, ma nel cristianesimo il martire non muore per farsi imitare. Il cristiano è mosso a pietà di lui, ma non invidia la sua morte. La teme, anche. Il martire sarà un modello di riferimento, non un modello per gettarsi nel fuoco con lui. Nell’Islam è diverso. Si muore da martire per farsi imitare, ed esplicitare in tal modo un progetto di trasformazione politica del mondo. Applicato agli inizi del XXI secolo un tale modello mi lascia atterrito. È una specificità dell’Islam? Si fa spesso riferimento alla setta degli Hashashin (Assassini) del Medio Evo che si uccidevano dopo aver dato la morte agli infedeli. Ma io non sono capace di comprendere questo gesto ancor meno di analizzarlo. Bisogna solo constatarlo.
Arriverebbe a dire che la figura dominante dell’Islam è quella del ‘combattente guerriero’ e che nel cristianesimo è quella della ‘vittima innocente’ e che questa irriducibile differenza è quella che porta al fallimento ogni tentativo di comprensione fra i due monoteismi?
Ciò che mi colpisce nella storia dell’Islam è la sua rapidità di diffusione. Si tratta della conquista militare più straordinaria di tutti i tempi. I barbari s’erano fusi nelle società che avevano conquistato, ma l’Islam è rimasto tale e quale e ha convertito le popolazioni di due terzi del Mediterraneo. Non è dunque un mito arcaico come si ha la tendenza a credere. Mi spingerei perfino a dire che è una ripetizione razionalista sotto certi punti di vista di ciò che farà il cristianesimo, una sorta di protestantesimo prima del tempo. Nella fede musulmana c’è un aspetto semplice, bruto, pratico che ha facilitato la sua diffusione e che ha trasformato la vita di un buon numero di popoli allo stato tribale aprendoli al monoteismo giudaico modificato dal cristianesimo. Ma gli manca la specificità del cristianesimo: la croce. Come il cristianesimo l’Islam riabilita la vittima innocente, ma lo fa in maniera guerresca. La croce è il contrario: è la fine dei miti violenti ed arcaici.
I monoteismi, poiché hanno dato alla luce la nozione di Verità unica, escludente ogni nozione concorrente, non sono portatori di una violenza strutturale?
Si possono sempre interpretare i monoteismi come degli arcaismi sacrificali, ma i testi non lo provano. Si dice che i Salmi della Bibbia siano violenti, ma chi si esprime nei Salmi se non le vittime delle violenze dei miti? “I Tori di Baalam mi accerchiano e stanno per straziarmi”. I Salmi sono come una meravigliosa pelliccia all’esterno, ma che, una volta rivoltata mostra una pelle sanguinante. Sono tipici della violenza che pesa sull’uomo e del ricorso che egli fa a Dio.
I nostri modelli intellettuali non vogliono vedere la violenza se non proveniente dai testi, ma da dove proviene realmente la minaccia? Oggi viviamo in un mondo pericoloso dove tutti i movimenti di folla sono violenti. Questa folla è già violenta nei Salmi, è già nel racconto di Giobbe. Essa chiede a Giobbe di riconoscersi colpevole: è un vero processo di Mosca ( alla maniera dei tribunali staliniani ndt), che gli vien fatto. Processo profetico. Non è quello di Cristo, adulato dalle folle e poi ricusato al momento della Passione? Questi racconti annunciano la croce, la morte della vittima innocente, la vittoria su tutti i miti sacrificali dell’Antichità.
Lei insiste nel suo ultimo libro sull’autocritica occidentale sempre affiancata a quella di etnocentrismo. «Noi occidentali scrive lei siamo al contempo noi stessi e i nostri stessi nemici». Sussiste ancora quest’autocritica dopo le distruzioni delle torri?
Sussiste ed è legittima per ripensare il futuro, per correggere ad esempio quell’idea di Locke e di Adam Smith secondo la quale la libera concorrenza sarebbe sempre bella e generosa. È un’idea assurda e noi lo sappiamo da molto tempo. Ed è stupefacente che dopo il fallimento così fragoroso del marxismo l’ideologia della libera concorrenza non si mostri capace di meglio difendersi. Affermare che la “storia è finita” (allusione alla teoria della ‘fine della storia’ di Fukuyama ndt) perché questa ideologia ha vinto sul collettivismo è evidentemente menzognero. Nei paesi occidentali i divari salariali s’accrescono in maniera considerevole e si va verso situazioni esplosive. E non parlo del terzo mondo. Ciò che ci si attende dopo l’attentato è piuttosto un’ideologia rinnovata, più ragionevole del liberalismo e del progresso.
Intervista a cura di Henri Tincq, traduzione italiana a cura di Alfio Squillaci
Le Monde, 5 novembre 2001
René Girard, nato il 25 dicembre 1923 ad Avignone e morto il 4 novembre di quest’anno ha vissuto dal 1947 fino alla morte negli Stati Uniti dove ha insegnato all’Università di Stanford (California). Gli attentati dell’11 settembre 2001 l’hanno lasciato “intorpidito” inizialmente. In quest’intervista a “Le Monde” l’antropologo tenta per la prima volta di analizzare un evento dove riscontra le sue tesi sulla rivalità mimetica e il sacrifico del capro espiatorio come strumento di risoluzione dei cicli di violenza. Da trent’anni le sue opere sono tradotte nel mondo intero. La violenza e il sacro, Delle cose nascoste dalla fondazione del mondo, Vedo Satana cadere come la folgore (Grasset, 1999). La sua convinzione cristiana s’è confermata lungo una densa opera che si può rilevare come una chiave di lettura della minaccia terroristica attuale. Per lui la violenza non è all’inizio né politica né biologica, ma mimetica. Ritorna spesso sulla convinzione che la croce – la morte di Cristo – annuncia la vittoria sui miti regressivi più arcaici.
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Vedi anche: René Girard, e la teoria del desiderio mimetico
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