Russia
Putin fa la guerra a Daesh in Siria per spiegare all’Islam russo chi comanda
Il 31 ottobre scorso un’esplosione nel cielo del Sinai, in Egitto, è un atto di guerra? Per come lo hanno raccontato i media, sembrerebbe di no. Eppure sono state 224 le vittime dell’attentato contro l’Airbus-321 della compagnia Kogalymavia, pieno di turisti russi di ritorno dalla località turistica egiziana di Sharm-el-Sheik.
All’inizio, con una reazione degna dei tempi della Guerra Fredda, il governo di Mosca ha negato che si fosse trattato di un attentato, ma oramai anche la Russia conferma l’esplosione probabile di un bagaglio. Come più o meno raccontato da Daqib, la rivista di Daesh, che lega direttamente l’attacco (probabilmente realizzato da miliziani del Sinai) alla partecipazione delle truppe russe nel conflitto siriano.
La rivendicazione di Daesh non fa riferimento, nelle sue minacce alla Russia, al Caucaso, ma non è un mistero che Vladimir Putin sta giocando una partita rischiosa, che potrebbe prevedere un ‘fronte interno’, quello delle repubbliche caucasiche della federazione russa, più o meno pacificate negli ultimi anni con tutti i mezzi, leciti e illeciti, a disposizione.
“E questo è per dimostrare ai russi e ai loro alleati che non avranno pace nei territori e nei cieli dei musulmani”, recita il comunicato di Daesh. Quei territori hanno nomi che, negli ultimi anni, sono usciti dalla narrazione mainstream. La Cecenia, in testa, ma non solo. “Libereremo la Cecenia e il Caucaso”, promettevano prima dell’attentanto.
Nell’appoggio esplicito al regime di Assad, infatti, Putin si schiera anche nel conflitto strumentale tra sunniti e sciiti che ha infettato la regione dopo essere stato fomentato ad arte da molti attori coinvolti. Gli alawiti, cui appartiene il clan Assad, sono considerati alleati degli sciiti (Hezbollah e i pasdaran iraniani combattono al fianco del regime siriano da anni) e la maggioranza dei musulmani della federazione russa sono invece sunniti.
Non è un mistero, che dall’inizio della guerra in Siria nel 2011, molti militanti integralisti sono arrivati a combattere Assad.
Secondo gli analisti vicini al Cremlino, schiacciarli in Siria eviterebbe di ritrovarseli un giorno – magari vittoriosi – di nuovo in casa. Ma allo stesso tempo, significa riaccendere il conflitto con Mosca. In Russia, il 15 per cento della popolazione è di religione musulmana e risiede soprattutto nelle regioni del Caucaso settentrionale e del Tatarstan. Il radicalismo armato si è diffuso dagli anni Novanta anche a causa delle due guerre tra Cecenia e Federazione russa.
Negli ultimi quindici anni, i movimenti islamisti sono diventati più strutturati, con finanziamenti provenienti probabilmente dall’Arabia Saudita, e si sono posti l’obiettivo di fondare un Emirato musulmano nel Caucaso settentrionale. La vicinanza ideologica ai paesi del Golfo è evidente anche dal fatto che gli islamisti russi sono comunemente chiamati wahhabiti e i loro leader, tutti uccisi dall’esercito russo, hanno il titolo di emiri del Caucaso settentrionale.
Veterani della Cecenia, della Circassia e del Dagestan sono passati per la Siria e l’Iraq. Il numero di combattenti russi in Siria, a seconda delle stime più o meno ufficiali, si aggira tra le 2.000 e 6.000 unità. Numeri che da un lato servono alla propaganda del Cremlino (sarebbero in realtà molti meno) per giustificare le azioni oltre confine, ma che dall’altro tracciano un quadro di scontro potenziale molto elevato.
Un bell’articolo di Giuliano Battiston per l’Espresso, che racconta la storia di Omar il Ceceno, tra i più fedeli luogotenenti del califfo al-Baghdadi e tra i protagonisti della presa di Palmira, rende un affresco interessante e preoccupante dei legami caucasici del radicalismo.
Non solo Cecenia: Daghestan, Inguscezia, Ossezia del Nord. E ricorderete gli anni di sangue: l’attacco al teatro Dubrovka a Mosca, la strage di Beslan. E la repressione brutale, con mezzi non molto differenti da quelli dei fondamentalisti. Anna Politkovskaja aveva raccolto le prove di esecuzioni extra giudiziali e ha pagato con la vita.
La guerra della Russia contro gli integralisti nel Caucaso e contro molti attivisti che denunciavano la violazione dei diritti umani ha causato in passato la denuncia di Amnesty International e Human Rights Watch: sparizioni, omicidi misteriosi, vere e proprie esecuzioni.
E i servizi segreti russi non stanno a guardare neanche ora. Il 10 novembre scorso, a Nalchik, le forze di sicurezza federali hanno eliminato Robert Zankishiev, comandante dell’Isis per l’unità della Kabardino-Balkaria, un’altra delle regioni a rischio. Ad inizio novembre, inoltre, è stato ucciso in circostanze ancora poco chiare, Abdulvakhid Edilgeriev, amministratore del sito ceceno Kavkaz Center e parente di Movladi Udugov, estremista islamico ceceno che per diverso tempo ha vissuto nascosto a Istanbul.
Edilgeriev era appena rientrato dai combattimenti in Siria, dove militava con una fazione qaedista e a quanto pare era libero di muoversi per la capitale turca senza alcun tipo di restrizione da parte delle autorità locali. L’agguato è avvenuto nei pressi della sua abitazione al rientro dalla moschea. Un altro elemento che non ha aiutato i rapporti tra Mosca e Istanbul, perché le operazioni di intelligence ‘fuori teatro’ sono da sempre uno sgarbo grave, anche se affatto nuovo per i servizi segreti russi.
La Cecenia, dopo il massacro degli anni Novanta, è nelle mani del satrapo Ramzan Kadyrov, per ora alleato di ferro di Putin. Di sicuro, però, le operazioni militari all’estero dell’esercito russo in Siria potrebbero imbarazzare l’uomo che ha ‘pacificato’ la Cecenia. Nelle altre zone, invece, il radicalismo di base è meno compatto, ma non meno pericoloso.
Sempre di più, tra i metodi brutali di Putin e i veterani del jihad caucasico la situazione potrebbe tornare rovente come in passato, con conseguenze tutt’altro che rassicuranti.
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