Medio Oriente
Per domare l’Isis occorre comprenderlo, ma nessuno ci aiuta davvero
“Ha pianto anche lei per i fatti di Parigi?” sembra comunicare il mondo in queste ore attraverso il suo ciclostilato virtuale in salsa tricolore. Google, Facebook, i monumenti delle capitali europee, persino YouPorn. Tutti accomunati dal dolore, tutti protesi verso l’empatia dell’immagine. Le vittime, la massa addolorata, le forze dell’ordine impotenti, i terroristi, i reparti speciali, persino il cane poliziotto. D’altronde diceva anche Montale che tutte le immagini portano scritto sempre “più in là” e noi più in là ci buttiamo, temerari nelle nostre paure, col bagaglio d’incertezza, piccolezza e ignoranza, con l’ardore di sapere dove andremo a parare.
Riuscire a raccattare la propria integrità appare difficile ed è ovvio che scavalcando le descrizioni delle varie tipologie che compongono l’antropologica associazione occidentale tentiamo di indirizzare il pensiero sull’effetto deflagrante delle bombe e delle armi da fuoco sulla folla inerme nel suo sociale fine settimana metropolitano, effetto che raggiunge distanze nucleari attraverso i mille canali d’informazione e i cui danni possono riscontrarsi senza curarsi molto di spazio e tempo.
Ovviamente tra chi teme la reale ascesa del Califfato e chi ‘mangia la foglia’ sul concetto un po’ anchilosato dello scontro tra religioni c’è aspra battaglia, nonostante si parta sempre da intenzioni reali di confronto salvo poi addentrarsi, accompagnati dall’ignoranza, in tenebre che partoriscono per lo più grosse incazzature. A guardar con più attenzione ci si accorge però che esiste un comune denominatore tra tutte le posizioni che noi cittadini del mondo bianco e blu assumiamo di fronte alla tragedia: l’incapacità di conoscere il nemico, ma soprattutto l’incapacità di intuirne i piani e le motivazioni. Per intenderci, le parole usate per inquadrare l’ISIS, acronimo di ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām, tradotto come Stato Islamico del Levante, il “germoglio satanico” come l’ha chiamato il Gran Muftì d’Egitto, sono sempre troppo poche. O meglio, più che in quantità difettano di qualità.
Dunque le parole che potrebbero esserci davvero utili nell’inquadrare il fenomeno, non ci sono. Ci sono ottime analisi che ne descrivono attività e storia, ci sono resoconti dettagliati che intendono spiegarci con più possibile precisione il reclutamento, gli scenari geopolitici, i nomi finché possibile -ISIL, Daesh, “L’Impero del Male” come ribattezzato da un recente documentario RAI- ma non possono cogliere la vera essenza del fenomeno. Una confusione che aumenta il livello di impotenza, dimostrata anche dal cambio di rotta dei potenti nel nomenclare il nemico, ora viene chiamato con il suo nome arabo Daesh, fino all’altro ieri ISIS, quasi a temere di risvegliare ulteriore rabbia luciferina. Detto questo, dello Stato Islamico non si può cogliere la polpa, perché non esiste alcun obiettivo dichiarato all’infuori di un’insana destabilizzazione dello stato di cose con l’intento di far zampillare terrore, odio, paura e ogni altro genere di irrazionalità in ordine, modi e luoghi rigorosamente sparsi.
Ormai sono anni che la jihad ci accompagna nel percorso parallelo del mostro interiore, con il suo significato distorto da Osama Bin Laden all’indomani dell’eccidio dell’11 settembre 2001 per inquadrare una “guerra santa” laddove la realtà descrive “uno sforzo spirituale interiore” per quanto riguarda la grande e una “guerra protettiva” per quanto riguarda la piccola jihad, come espresso chiaramente dai testi sacri:
«Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono. Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti» (Corano, 2:190-191, Al-Baqara).
L’ondata di caos bestiale che porta il Califfato in ogni contesto -religioso, laico, islamico, cristiano- coglie solo lontanamente questo precetto, perché se è vero che la guerra è santa, è altrettanto vero che se ad Allah non sono graditi gli eccessi, questo non fa proprio il caso di Abu Bakr al Baghdadi e dei suoi miliziani, che per quanto riguarda atrocità, bassezze e orrori non si sono fatti mancare niente sia per efferatezza che per quantità di sangue versato.
Tra Yazidi, Turcomanni, tribù sciite, curdi, siriani, europei, l’eccesso è già stato valicato da tempo, ma a quanto pare non ha mai rappresentato un problema per questo integralismo un po’ particolare. D’altronde, come raccontano le parole di Nicolas Hénin al Guardian e riportate da Internazionale, «il nostro dolore, il nostro strazio, le nostre speranze, le nostre vite non gli interessano. Il loro è un mondo a parte», un mondo pieno di nebbia in cui i portatori di terrore «si presentano come supereroi -continua Hénin, che è stato ostaggio dell’ISIS per dieci mesi- ma lontani dalle telecamere sono piuttosto patetici: ragazzi di strada ubriachi di ideologia e potere. In Francia abbiamo un modo di dire: stupidi e cattivi. Io li ho più trovati stupidi che cattivi».
Dei ragazzacci di periferia europea, spacciatori o teppisti, fatti di cocaina o di Captagon, la droga che toglie la paura, ma anche ragazzi spensierati che frequentano i migliori licei di Bruxelles, come il belga-marocchino Abdelhamid Abaaoud, presunto capo della cellula e organizzatore degli attentati in Francia. Un universo frastagliato e surreale, spesso in contrasto con l’immaginario a cui siamo abituati, una realtà che se per molti tende ad incarnare alla perfezione il forte aspetto motivazionale a cui questi ragazzi possono essere legati nel meccanismo di affiliazione -il fatto che provengano da famiglie piccolo-borghesi può escludere il fattore economico ma non quello sul disagio, esistenziale prima che religioso-, dall’altro fa sorgere dei dubbi sulle modalità di azione, meravigliati da una moralità integerrima che non si osserva ma che invece stranamente si vuole applicare, almeno così sembra.
Questo a che vantaggio? Conquistare l’Occidente? Riformare il mondo islamico? Ripristinare l’Impero Ottomano, Turchia compresa? Suggestivo, tanto da far riaffiorare quella citazione secondo cui la storia tragica si ripete come farsa. Forse il nemico si crea per creare immobilismo o per aumentare lo stato di polizia e di controllo, e ce lo dicono altre indagini confezionate in inchieste da far correre sul web, tutte piuttosto ardite e ardimentose.
Non prevale alcuna tesi emergente, si passa dalla dietrologia alla tesi di Dio contro Allah, i link si sovrappongono in rete senza dimenticare che questa è una rete dove l’Isis sembra saperci sguazzare, dando la conformità del gioco di ruolo virtuale allo scontro. Questo fino al giorno in cui una manciata di pazzi i morti li fa davvero, prima col pretesto della vignetta scomoda del giornale satirico, poi a dieci mesi di distanza dimenticandosi il pretesto come se fosse un passaporto e preferendo l’opzione dell’eccidio di civili tramite azioni combinate -a tratti l’inquietante similitudine coi fatti del 2011 in Norvegia, a Oslo e sull’isola di Utoya-, preparate minuziosamente secondo fine strategia e con ripetuti spostamenti -poi accertati dall’intelligence transalpina- di materiale e di uomini tra il Belgio e la Francia, questo nonostante all’indomani della strage a Charlie Hebdo si fossero innalzati i livelli di sicurezza, evidentemente destinati ad arrivare al cielo per garantire la nostra immunità.
Come già detto in queste righe non si offrono né si cercano dettagliati resoconti da aggiungere a quelli già brillantemente realizzati, piuttosto si tenta di provare a succhiare la polpa di questo male oscuro che impedisce all’umanità tutta l’approdo al futuro. In fondo ogni grande conflitto culturale ha sempre comportato lo snodo tra un’epoca e l’altra. Ciò che più inquieta dell’Isis è proprio questa forma moderna di non essenza plasmabile sul nulla, che non ha nulla da difendere e nulla di preciso da attaccare, all’infuori della nostra tranquillità. Certo, in molti sostengono che il vero obiettivo è quello di ricreare i confini dell’Impero Ottomano in una logica d’espansione che ricorda quella del Reich hitleriano, con cui condivide la stessa passione per l’ubriacatura ideologica e di prevaricazione su questioni etico-religiose. In questa logica si fa fatica a inquadrare Daesh come un gruppo eversore, proprio per l’assenza specifica e rivendicata di una causa per cui combattere.
Questo emerge a livello macroscopico, ma anche a livello più dettagliato, incrociandosi con quegli stralci di esistenza terrena che si nascondono dietro il terrorista a volto coperto e col nome di guerra, scoprendo ad esempio che un kamikaze del 13 novembre, Brahim Abdeslam, 31enne belga, gestiva fino al 2013 nel quartiere Molenbeek-Saint Jean di Bruxelles un pub poi chiuso per problemi relativi allo spaccio di sostanze stupefacenti. Brahim Abdeslam, presunto integralista islamico sunnita, gestiva un locale in cui la gente si drogava, dedicandosi ai più dissoluti piaceri della perdizione. Un particolare che insieme ad altri getta ombre sulla già vacillante integerrimità dei miliziani Isis, e che rimanda alle parole di Hénin quando ci dice di essere al cospetto di stupidi e non di cattivi, precisando però che questo «non significa sottovalutare il potenziale omicida della stupidità».
Il quadro emozionale che viene fuori dal contesto Isis è dunque più vicino a contemplare quelli che sono i mali più oscuri del nostro mondo -gioventù spezzate, povertà, disagio, razzismo, emarginazione, protagonismo- più che illustrare la crudeltà del diverso che viene a spazzare via le nostre certezze. Brahim Abdeslam non ha nulla di anti-occidentale, così come Coulibaly, nulla, fino a venticinque anni fa avremmo potuto dire “eccetto l’etnia e la religione”, nel 2015 di fronte a un’Europa in cui gli extraeuropei anche di seconda generazione diventano cospicui -si viaggia nell’ordine delle decine di milioni- non possiamo neanche più dirlo.
L’Europa è un’area multiculturale in cui incunearsi è molto facile, sopravvivere è un obiettivo raggiungibile, trovare una vita degna a volte invece può essere difficile. Questo è il destino di un continente che ospita 20 milioni di stranieri e che non ha ancora imparato a non additarsi come non straniero, neanche tra sé e sé. Non c’è un collante che rafforzi l’identità, e mai come in questo periodo il cammino intrapreso verso un futuro unitario è stato in discussione. In questa situazione l’orrore affonda come un coltello caldo nel burro, spogliandoci di alcune menzogne che regolarmente ci raccontiamo, come quella dell’accoglienza e dell’unità, come quella dei valori da difendere e del benessere da esportare, tutte parole che riempiono piazze virtuali e lanci d’agenzia, che ci fanno scornare come caproni nella stagione dell’amore, ma che sembrano sciogliersi davanti a una propaganda ben orchestrata.
Per questo l’ISIS, o Daesh, o Stato Islamico, o istinto bestiale, ci immobilizza. Per questo slegarsi da immagini e mappe, anche solo temporaneamente, può essere importante per recuperare quel filo logico che il nemico pare non avere, e dalla cui situazione di caos attinge armi sempre più potenti, armi ancora più potenti di quelle usate nelle azioni. L’arma dell’ignoto, l’arma del nascosto, l’arma della parte peggiore di noi che in arabo minaccia di impiccare il nostro prospetto di speranze. Ecco perché forse non c’è bisogno di bombe, ma soltanto di luce, magari non quella che acceca, ma quella che guida e illumina attraverso conoscenza, tanta, e dunque comprensione, mai abbastanza.
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