Terrorismo
Noi cittadini qualunque che ci sentiamo inadeguati di fronte al terrorismo
Forse è un tormento condiviso, quello dei cittadini qualunque – siamo tutti cittadini qualunque – nell’affrontare ciò che appare più grande di noi e che si materializza, in una giornata apparentemente come tante, in un attacco terroristico su vasta scala, addirittura sparso su tre continenti come ha opportunamente sintetizzato Il Corriere nel suo titolo di prima pagina. Una delle accuse che intellettuali di un certo peso muovono alle persone, quelle che, messe insieme, vengono definite “opinione pubblica”, è di pensare che ciò che accade nel mondo, in Tunisia, nel Kuwait, in Somalia, non potrà mai succedere a casa loro, in questo caso in Italia. Di considerare, cioè, quel pericolo come qualcosa di estraneo, di lontano da sé, di inafferrabile e solo per questo di sconosciuto e in fondo anche di scarsamente interessante. Come se ciò che è accaduto in quel resort di Sousse, nel golfo di Hammamet, quella strage senza pietà, non potesse mai accadere, per dire, su una spiaggia dorata della Sardegna o a Milano Marittima. Luoghi molto frequentati, di riposo, di divertimento.
Di fronte a questa accusa il cittadino si sente ovviamente inadeguato. E anche impreparato. Questi intellettuali commettono un errore di valutazione nel credersi decisivi nella nostra inadeguatezza, che in realtà, quando accadono certi fatti terribili e molto più grandi di noi, è già un sentirsi fuori posto all’interno della società, senza che qualcuno alzi il suo ditino e ci indichi a una giuria di benpensanti. La domanda che ci poniamo costantemente, alcuni con estrema consapevolezza, altri covandola al fondo dell’anima, è probabilmente questa: ma io, semplice cittadino italiano, come devo comportarmi, quali armi posso usare per entrare di più e meglio nella comprensione di certi fenomeni, che sono obiettivamente intricati, complessi, spesso superiori alla nostra portata e che appartengono a civiltà estremamente diverse dalle nostra?
Certo, è facile e persino ovvio dire: informarsi di più, partecipare di più, comprare un giornale, leggere, leggere le persone che sanno e non i venditori di fumo, districarsi in una selva di sollecitazioni e poi formarsi un’idea più o meno compiuta. Seguire un telegiornale, magari un approfondimento. Tutto questo è molto bello, alcuni lo fanno, ma non è affatto semplice e non si può colpevolizzare chi non ha la pazienza o la voglia di farlo. Anche in questo caso, c’è chi valuta questo atteggiamento come l’anticamera del menefreghismo, per cui considerare quei cittadini come un popolo di serie B, che un malaugurato giorno dovesse affacciarsi il terrorismo alle porte di casa nostra non avrebbe diritto di parola.
Ma la questione islamica, e il relativo terrorismo, non lo possiamo risolvere all’interno dei nostri pensieri, per chi magari ha voglia di farlo, è una questione troppo cruciale per non essere portata all’attenzione di tutti i cittadini con un intervento dello Stato a livello centrale. Perché – possiamo dircelo chiaramente – in questo frangente siamo in balia della politica più interessata, il cittadino viene investito da sollecitazioni spesso di profilo volgare, stretto com’è tra l’ansia legittima che l’emergenza umanitaria evidentemente suscita e i rigurgiti più terribili del terrorismo islamico. In questa tenaglia, si insinua la politica con i suoi biechi interessi elettorali e quelle paure neppure tanto surrettiziamente instillate nelle vene dei cittadini più suggestionabili. Un’operazione, per carità, del tutto legittima ma anche leggermente ignobile.
Noi cittadini abbiamo bisogno di aiuto. Di traduttori del fenomeno terrorismo intelligenti, preparati e soprattutto sereni. Certo, li possiamo scovare sui giornali ma è un lavoro difficile, impervio, forse per pochi privilegiati. Tutti devono accedere a certe informazioni, poter capire certi fenomeni, perché solo da una base di consapevolezza sempre più allargata si potrà arrivare all’equilibrata serenità di un Paese di fronte a certi pericoli. Averne conoscenza.
Non si può non pensare all’unico luogo della conoscenza dove si formano le nostre identità: la scuola. È forse arrivato il tempo perchè alla scuola, alla nostra scuola pubblica, possa essere affidato il racconto di una storia che ha radici antichissime e che oggi, tra l’incredulità generale, ha portato allo stravolgimento del mondo. Il racconto, ovviamente, non del giorno per giorno che abbiamo sotto gli occhi – questa è la “missione” semmai dell’informazione – ma di una parte del mondo che, appunto, abbiamo sempre creduto troppo lontana da noi per dovercene occupare.
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