Salute mentale

Nella mente di un terrorista

16 Dicembre 2018

Il giorno dopo l’attentato di Strasburgo si è di nuovo scatenata sui media la ricerca di una spiegazione del terrorismo islamico.

Quotidiani e media hanno intervistato in prevalenza sociologi, qualcuno storici e filosofi.

Eppure non sono mancate in questi anni ottime letture del fenomeno anche da parte di psicanalisti.

In italiano è disponibile il libro di Fethi Benslama, psicoanalista e docente di psicopatologia clinica all’Université Paris-Diderot “Un furioso desiderio di sacrificio. Il supermusulmano”, Raffaello Cortina.

Io ho trovato molto utile la lettura di Luigi Zoja, “Nella mente di un terrorista”, Einaudi.

Zoja, psicanalista di indirizzo junghiano di fama mondiale, da anni porta avanti un proprio progetto di lettura psicanalitica della storia e dell’attualità culturale e politica, cercando di superare il ruolo della psicanalisi come esclusiva terapia individuale perché si mobiliti un’iniziativa di maggiore e più diffusa consapevolezza di sé.

Straordinario per profondità e ricchezza dell’argomentazione resta il suo volume “Paranoia. La follia che fa storia”, Bollati Boringhieri in cui condensa anni di ricerca e di riflessione.

In qualche modo il volume dedicato al terrorista islamico è un figlio di quello che lo precede. Zoja vi fa spesso riferimento.

La sua lettura incrocia islam, crisi della società post moderna, nuovi media e dinamiche psichiche dei giovani delle periferie urbane immigrate di seconda o terza generazione.

«Partiamo da un presupposto: questo non è un problema specifico dell’Islam o comunque di una religione. Ha trovato nei conflitti dell’Islam un tragico sbocco, ma non si tratta di un fenomeno originato da quest’ultimo, quanto dall’alienazione della società post moderna. La psicologia di questi attentatori non mi sembra molto diversa da quella del giovane americano che ha fatto una strage alla prima di un film di Batman, travestito da uno dei suoi antagonisti…il terrorismo e il crimine pescano nel vuoto di giovani le cui vite sono così prive di significato che necessitano di un momento di gloria. E’ il movente per cui questi ragazzi ammazzano un po’ di persone e poi  si ammazzano a loro volta o si fanno ammazzare. Il contesto fa poca differenza. La sensazione di esistere non è consegnata dalla vita, ma dalla morte. Per un occidentale può sembrare roba da Medioevo, invece è una novità del XXI secolo. Dal punto di vista psicanalitico e delle emozioni profonde si sentono vivi, almeno per un attimo. L’Islam, la religione, la mentalità e gli arcaismi vengono dopo. Questa è una società iper-ricca, iper-tecnologica e iper-sperduta. L’uso acritico dei social network non ha certo aiutato, potenziando le illusioni e di conseguenza le frustrazioni» (p.73-73).

Una lettura dunque che problematizza le semplificazioni che spesso vengono vendute come facile propaganda: la tesi “essenzialista” (che interpreta la violenza e il terrore come consustanziali all’Islam), quanto la tesi “storicista” (che spiega il terrore islamista come un prodotto diretto dello strapotere occidentale, supurazione delle mai guarite ferite coloniali).

Ma oggi, più che mai, di banalizzazioni non abbiamo proprio bisogno.

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