Terrorismo
Morte, architettura e alberi: da quale lato sta la sconfitta?
La comunità degli architetti è in subbuglio da quando, qualche giorno fa, Stefano Boeri si è espresso proponendo ai sindaci di sostituire alle barriere in cemento normalmente in uso come misura antiterrorismo (nella fattispecie anti-camion) oggi ritenuta necessaria nelle piazze italiane, fioriere piantumate con alberi di quercia, cogliendo l’occasione per dotare di più verde le città (un’idea immediatamente accolta da alcune amministrazioni).
Nella confusa bagarre sui social media, a tratti accesa e, come sempre, per lo più scioccamente personalistica, si sono viste affiorare però anche alcune importanti controversie che legittimamente scaturiscono da questo tema. È ad esempio emerso che le soluzioni che ricorrono al greening urbano si accompagnano ormai così spesso a una sorta di “banalità del bene” (in cui il verde equivale al bello e il bello al buono) che paradossalmente oggi è quasi difficile agire in questo modo senza rischiare di generare un opposto risultato di sospetto, particolarmente presso le comunità di addetti ai lavori. Si è parlato, giustamente ma anche banalmente, di innocenza del cemento e colpevolezza del progetto. Si è detto anche del rilievo inedito che – alla buon’ora – il design dell’“arredo urbano” ha preso a ricoprire all’interno tanto della disciplina architettonica, che lo ha a lungo bistrattato come suo ramo cadetto, quanto del dibattito pubblico più ampio.
In pochi hanno però centrato il punto del discorso, proprio perché questo punto, in quanto rimosso collettivo, non vuole mai farsi centrare con facilità.
Il terrore – come in fondo altre grandi parole-contenitore, quali guerra e mafia, direttamente correlate con una versione della morte che è ancora più spaventosa perché pubblica e quindi oggettiva – sconcerta e divide l’opinione tra diversi stili d’intervento. Di fatto, non si sa mai in che modo parlarne: indebolendole ridendone, demonizzandole indulgendo sui particolari orrorifici, o smantellandone la potenza iconica, scegliendo di ignorarle?
La cosa, insomma, su cui è difficile decidersi è: da quale lato della barricata (è proprio il caso di dirlo) sta la sconfitta?
Si può definire “débâcle” un tentativo di imbellettamento o camuffamento del dispositivo di difesa con operazioni artistiche o di piantumazione, se questo attenua la pubblica infelicità, che è lo scopo e il nutrimento stesso del terrorismo? Si deve al contrario considerare “vittoria” la schiettezza spietata della pubblica ammissione di trovarsi in un stato di guerra, e quindi propendere per la verità delle trincee, benché terribile e generatrice di incubi?
O non sono forse entrambe sottomissioni a uno stato di cose inaccettabile (la negazione, benché parziale, della libertà di una vita urbana pienamente pubblica e quindi la negazione, questa volta totale, della sua auto-rappresentazione) e quindi inaccettabili rinunce a direzioni della storia scelte, decenni or sono, anch’esse spesso a colpi di strage?
Di certo c’è una sola cosa: che queste domande ci fanno accorgere di quanto prepotentemente la storia si raffiguri nel suo farsi attraverso gli oggetti, e quindi di quanto legittimo sia, da parte di chi di quegli oggetti si occupa, pretendere di prendere parte ad essa con chiare posizioni, a prescindere da quali.
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