Medio Oriente
L’ISIS e la lotta armata sunnita in Iraq
Oltre allo Stato Islamico, dai nazionalisti ai salafiti-jihadisti, il Jaysh Rijal al-Tariqah al-Naqshabandia (JRTN), il General Military Council of Iraqi Revolutionaries (GMCIR), il Council of the Revolutionaries Tribes of Anbar, Ansar al-Islam, il Jaysh al-Mujahideen, le Brigades 1920, l’Islamic Army ed il Falluja Military Council sono i gruppi che oggi si oppongono a Baghdad con le armi.
Alcuni erano già attivi dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, ma la loro influenza diminuì con la (apparente) maggiore partecipazione politica concessa ai sunniti nel 2009 e nel 2010. Ma è nel 2011 che diversi gruppi hanno riacquistato forza, quando l’ormai ex primo ministro iracheno al-Maliki consegnò il controllo delle Forze di Sicurezza Irachene (FSI) nelle mani degli sciiti, inaugurando una fase di discriminazione politica nei confronti dei sunniti.
Alla questione politico-militare bisogna aggiungere gli attacchi delle FSI contro i civili durante le manifestazioni di protesta. Fondamentale per l’escalation di violenza è stato l’episodio di Hawija, nell’aprile 2013, in cui 50 persone furono uccise dal fuoco delle FSI.
Soprattutto nelle provincie sunnite, come quelle di Anbar e Salah ad-Din, i gruppi armati anti-governativi si sono quindi moltiplicati. Nonostante si tratti spesso di cellule di miliziani che non possiedono una capacità militare tale da imporsi sui rispettivi territori di appartenenza, esse sono comunque in grado di rendere più vulnerabili le FSI, percepite tutt’oggi come un attore di parte (sciita). Vulnerabilità che ha giocato a favore dei gruppi più grandi ed organizzati, come GMCIR, JRTN, Ansar al-Islam e, soprattutto, ISIS, che resta comunque la maggiore potenza sul campo.
Ma se le azioni dei ribelli sunniti sono state fondamentali per l’ISIS nella presa di città come Fallujah e Mosul, rispettivamente a gennaio e giugno 2014, questi gruppi rappresentano oggi un potenziale pericolo per lo Stato Islamico e potrebbero diventare la loro spina nel fianco, rivoltandosi contro di esso. Nel corso di quest’anno, infatti, tutti i gruppi si sono scontrati con l’ISIS, non condividendone le imposizioni e gli obiettivi di lungo termine.
Tuttavia, gran parte della popolazione sunnita irachena è ormai sotto il controllo dell’ISIS e la sua influenza è molto forte. Molto più forte rispetto a quella esercitata da una coalizione guidata dagli Stati Uniti, ma soprattutto molto più forte rispetto a quella di uno Stato iracheno che ha discriminato la comunità sunnita per anni.
Infatti, se la questione delle milizie sciite e degli attacchi contro i civili, nonché le richieste per una maggiore inclusione nella vita politica del paese non verranno discusse in modo serio e da rappresentanti ampiamente riconosciuti, sarà difficile convincere i sunniti a schierarsi apertamente a favore di Baghdad. Sarà difficile convincerli a non opporsi ad una campagna militare guidata dall’esercito iracheno. Sarà difficile scegliere il “male minore” tra ISIS e FSI. E anche se l’ISIS venisse sconfitto, gli altri gruppi armati resterebbero comunque una minaccia per Baghdad. Per evitare l’ennesimo fallimento, bisognerebbe evitare una campagna militare che punti a debellare l’ISIS senza tenere conto delle citate questioni interne.
Sembra, quindi, che il successo contro l’ISIS in Iraq dipenda si dalla volontà dei sunniti, ma soprattutto dalla capacità dei politici di coinvolgerli nella politica nazionale. Dati il basso tasso fiducia nel governo iracheno, la scarsa rappresentanza a livello statale e l’isolamento in cui vive la popolazione sunnita delle aree controllate dall’ISIS, il problema più grande sarà come coinvolgerla direttamente individuandone i giusti attori politici.
Attori che potrebbero essere individuati nelle comunità tribali che non sono a favore dei gruppi armati anti-governativi e che collaborano con il governo tentando di resistere contro la minaccia dello Stato Islamico.
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