Parigi

L’Europa piange impotente sul vuoto di una guerra senza forma

14 Novembre 2015

Siamo in guerra, è certamente così. Ma per poterla combattere, per definire un piano strategico di difesa e di attacco bisogna prima sapere che cos’è, oggi, la guerra.

Innanzi tutto, come nota Alessandro Colombo in un bellissimo saggio dal titolo La grande trasformazione della guerra contemporanea, non è vero che la guerra rappresenta la negazione della politica, del diritto e del linguaggio. La guerra è piuttosto il doppio della politica, del diritto e del linguaggio: “osservando la guerra è possibile capire se l’impiego della violenza possa essere conforme all’ordine sociale oppure ne segni necessariamente la fine, quale sia il principio organizzativo della convivenza sociale e chi siano i suoi protagonisti, che rapporto abbiano le loro relazioni con lo spazio e quale ruolo svolga – se ne svolge uno – il diritto”.

La forma della guerra rispecchia in sostanza la forma della convivenza internazionale. Per esempio la “mobilitazione totale” delle due guerre mondiali è “la traduzione sul terreno della violenza del micidiale incontro tra le energie della rivoluzione industriale, la mondializzazione delle relazioni diplomatiche e l’intensità delle passioni ideologiche messa in campo dalla nazionalizzazione delle masse”.Oggi la guerra rispecchia evidentemente il declino delle sovranità statali, i fallimenti dei progetti di ingegneria sociale americani ed europei in Medio oriente, in Nord Africa e il disordine che ne è derivato.
L’esempio delle guerre contemporanee e in particolare della brutalità del terrorismo che proprio ieri ha colpito il cuore dell’Europa, sta ad indicare la completa disintegrazione del paradigma moderno (ottocentesco) che ancor oggi utilizziamo per ragionare sulla guerra e sulla pace.
Esso può essere riassunto attorno a quattro elementi:

1.       Il primo è quello della “guerre en forme come opposto della violenza senza forma”. Questo primo elemento consiste nella possibilità di distinguere chiaramente tra interno ed esterno, tra la definizione dello stato di guerra (dichiarato pubblicamente) e quello di pace. Sostanzialmente la guerra senza forma nella riflessione otto e novecentesca era identificata con la guerra civile, grande spauracchio di teorici politici e uomini di Stato.

2.       Il riconoscimento di uno spazio, il campo di battaglia, in cui la guerra è legittimata ad essere combattuta. In questo modo si risparmiavano altri luoghi in cui erano garantiti i diritti privati dei cittadini civili.

3.       La distinzione tra combattenti, militari legittimati a combattere, e non combattenti, cittadini civili. Distinzione fondamentale che si inscrive nel processo di disciplinamento diffusosi nella società occidentale prima in ambito religioso, poi scolastico, ospedaliero, industriale e infine militare. Si arrivò così a circoscrivere un “esercito regolare”.

4.       La razionalizzazione della guerra attraverso le chiare distinzioni di interno ed esterno, pubblico e privato, militare e civile ha permesso di “estrapolare la guerra interstatale dallo sfondo delle violenze senza forma”e di assicurare la dipendenza della guerra dalla politica e della politica dallo stato. Qui vigeva l’idea Clawsewitziana della guerra “come strumento docile della politica e dell’esercito come strumento docile della strategia”.

Con il paradigma moderno di interpretazione dei fenomeni della guerra si è cercato di regolamentarla, circoscriverla e normalizzarla: uno stato è legittimato a combattere una guerra, un privato o qualsiasi altra organizzazione non internazionalmente riconosciuta no. Le guerre, fino al crollo dell’Unione Sovietica venivano combattute tra “simili”, ossia Stati Nazione “con eserciti regolari strutturati secondo linee gerarchiche … e accumunate da uno stesso codice comportamentale bellico” (per la rivoluzione francese e le guerre partigiane bisognerebbe fare un discorso a parte). La “guerra in forma” ora descritta presupponeva anche un certo equilibrio di potenza tra i soggetti legittimati a combatterla, una certa simmetria che oggi non sussiste più.

Inutile dire che la guerra come l’abbiamo conosciuta, codificata e interpretata in occidente è scomparsa, ma non perché “sia scomparsa la violenza nella politica internazionale, ma perché sono franate tutte le chiare distinzioni (pace/guerra, pubblico/privato, militari/civili, interno ed esterno), che consentivano di racchiuderla entro confini definiti, assicurandole in questo modo una forma”.

In 128 sono morti nella “guerra” di questa notte a Parigi e in 200 sono feriti. L’Europa impotente piange le sue vittime e mentre tanta retorica circola nel mondo dell’informazione e della politica c’é una domanda che urge una risposta: Cosa fare?

Ad oggi la guerra al terrorismo rispecchia la definizione che Carlo Galli ne diede nel 2002 in La guerra globale: una guerra infinita perché “priva di confini spaziali e temporali, amorfa, contaminante.”

La potenza economica, militare e tecnologica a disposizione dell’occidente, come hanno sostenuto molti studiosi e strateghi di guerra, é ad oggi incomparabilmente superiore a quella dello Stato Islamico. Il problema però continua a sussistere: Come impiegare questa potenza in modo efficace se continuiamo ad utilizzare categorie ottocentesche per interpretare la pace e la guerra? Molti dicono: cosa aspetta l’Occidente ad attaccare?

Ma attaccare dove se il nemico è qui, tra di noi e vicino a noi. Occorrono alternative al pensiero e all’azione sulla guerra.

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