Medio Oriente
Donald Trump nel grande gioco mediorientale
Donald Trump ha deciso di iniziare il 2020 con l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani, atto difficilmente interpretabile, che desta scalpore e preoccupazione. In poche ore, il mondo ha compreso che il generale della Forza Quds non era solo il vertice di un apparato militare-burocratico, ma un potente uomo politico capace di mutare gli equilibri mediorientali. L’uomo predisposto dal regime degli Ayatollah a espandere l’influenza militare, sciita e persiana, nel medio oriente.
Le strategie militari di Soleimani e quelle politiche della guida suprema Ali Khamenei hanno contribuito ad aumentare il peso regionale dell’Iran dopo l’isolamento seguito alla rivoluzione del 1979. L’influenza sciita si è infatti allargata a danno dei due grandi rivali regionali, Arabia Saudita e Israele. Basta pensare che l’Iraq ha un governo sciita, la Siria dopo anni di guerra rimane saldamente controllata dall’alleato Assad, il ricco Qatar, un tempo amico di Riad, è sceso a compromessi con Teheran, infine lo Yemen è precipitato in una lunga guerra civile che ha impantanato i sauditi.
Le vittorie sono frutto di azioni diplomatiche e militari, che non si sono risparmiate atti non convenzionali. La strategia di Soleimani ha compreso infatti una guerra sul campo in Siria e Iraq, il sostegno alle organizzazioni che sanno muoversi sia con la politica che con le armi come Hamas ed Hezbollah, l’esplosione della guerriglia Yemenita, il bombardamento di campi petroliferi sauditi. Recentemente, si è occupata di reprimere le manifestazioni irachene e, con ogni probabilità, di organizzare il conseguente assalto dell’ambasciata americana a Baghdad.
Le giustificazioni americane appaiono legate a quest’ultimo evento, il quale non ha comportato morti o feriti, all’uccisione di un contractor statunitense nei giorni precedenti e alla pianificazione di nuovi attacchi che avrebbero potuto mietere vittime. Come se Trump non avesse né necessità né desiderio di approfondire le motivazioni del gesto, di mostrare al mondo la provetta che Colin Powell agitò per sostenere l’invasione dell’Iraq. In realtà, il contesto iracheno è già caldissimo, perché bolle il risentimento contro gli sciiti da una parte e contro gli Stati Uniti dall’altra. Lo stesso assedio dell’ambasciata sembra essere il risultato di una guerra a bassa intensità tra le forze USA e Kata’ib Hezbollah, la milizia sciita comandata da Abu Mahdi al-Muhandis, anch’esso ucciso nel raid di ieri.
L’uccisione di un uomo influente nel grande gioco mediorientale, accreditato dalla maggioranza delle diplomazie occidentali tanto che solo cinque paesi al mondo riconoscono le Forze Quds come organizzazione terroristica, è difficilmente catalogabile.
La modalità ricorda i raid israeliani del 2004 per eliminare lo shaykh Aḥmad Labous Yāsīn, capo spirituale di Hamas, e il suo successore Abd al-Aziz al-Rantiss. In quel caso, gran parte della comunità internazionale espresse condanna per il gesto di Israele. Non era considerato legittimo uccidere senza processo capi di organizzazioni che sanno utilizzare il mezzo terroristico nell’ambito di un’azione politica più complessa. Oggi, a testimonianza della difficoltà di comprendere la crisi, la comunità internazionale rimane in silenzio. Si levano solo le voci interessate di chi grida all’atto di terrorismo internazionale e di chi parla di atto di giustizia finalizzato a sconfiggere il terrorismo.
Quello che accadrà è un’incognita. L’azione può ricordare l’assassinio dell’Arciduca Ferdinando a Sarajevo, ma le forze in campo sono completamente diverse. Il raid è stato effettuato dalla più grande forza militare mondiale contro una potenza medio-piccola che, malgrado i successi degli ultimi anni, fatica ad uscire da una risicata aura di influenza. Le stesse alleanze faticosamente messe in piedi dagli Ayatollah con Russia e Cina non sembrano consolidate, per cui né Mosca né Pechino paiono avere intenzione di morire per Teheran.
L’invasione e l’escalation globale sono scenari quindi poco plausibili, mentre è più facile pensare all’intensificazione della guerra a bassa intensità. Un nuovo ciclo di attentati e stravolgimenti che renderà ancora più difficile vivere in tutto il medio oriente. L’aumento di tensione potrebbe scatenare nuove guerre per procura tra i contendenti regionali, aiutati dalle grandi potenze. In questo scenario, l’Iraq appare il campo di battaglia predestinato per una nuova edizione di un grande gioco che non ha niente a che vedere con le esigenze di Baghdad, ma solo con la volontà di rivalsa dei veri attori in campo.
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