Religione

L’arma della ragione contro le guerre di religione

2 Agosto 2016

Di fronte alla strage del 13 novembre 2015, ai morti di Nizza, allo sgozzamento dell’anziano prete a Rouen, ai continui minacciosi proclami dell’Isis possiamo infine dire di essere nel mezzo di una guerra di religione? Questa domanda agita gli intellettuali non solo d’Italia ma di mezzo mondo e affonda le sue radici nel terrore in cui siamo piombati dopo quel maledetto 11 settembre 2001. Inutile negarlo: tutto ha avuto inizio quel giorno in cui insieme alle due Torri Gemelle sono crollate anche le nostre certezze, le nostre sicurezze, le nostre abitudini. Il terrore è qualcosa di subdolo e di imprevedibile il cui obiettivo è quello di destabilizzare la nostra routine, fino a pensare “ho paura di prendere questo aereo, o questo treno, o di visitare questo museo”. E’ una sensazione disgustosa con la quale il mondo occidentale, lentamente e faticosamente, sta imparando a convivere.

Chi risponde “sì” alla domanda iniziale fa coincidere il terrorismo con l’Islam, e scorge nei terribili tempi che viviamo un disegno se non organizzato quantomeno comune per ristabilire il dominio dei fedeli di Maometto sul mondo occidentale. Spesso questi intellettuali sono giornalisti, e quasi sempre usano le colonne dei quotidiani o dei periodici nei quali scrivono per lanciare indefinite chiamate alle armi. Chi risponde “sì” crede, per usare un’espressione rispolverata da Mario Sechi sul Foglio proprio questi giorni, nel “Dio degli eserciti”, la divinità che si ergeva in difesa di Israele minacciato dai nemici: “«Popolo mio, che abiti in Sion, non temere l’Assiria che ti percuote con la verga e alza il bastone contro di te come già l’Egitto. Perché ancora un poco, ben poco, e il mio sdegno avrà fine; la mia ira li annienterà». Contro di essa il Signore degli eserciti agiterà il flagello” (Is 10, 24-26).

Si chiede Sechi: “Cosa fa il Signore onnipotente di fronte a un suo umile servitore sgozzato in Chiesa mentre celebra la messa? E’ una domanda a cui Papa Francesco risponde con la negazione della guerra di religione, riaffermando la sua più che opinabile teoria della terza guerra mondiale a pezzi. Nient’altro. Il Dio degli eserciti della Bibbia è sparito. La lettura militare e belligerante del Corano, base su cui si fonda l’idea del Califfato e delle sue sigle terroristiche, non esiste”.

Se ci fermiamo all’Antico Testamento questa preoccupazione è più che giustificata. Ma duemila anni fa – e chi si professa cristiano questo non può ignorarlo – un uomo è nato in una mangiatoia a Betlemme e per tre anni ha insegnato la buona novella sovvertendo ogni paradigma: anziché guerra, pace, al posto della vendetta il perdono. Da santo Stefano in poi i cristiani vengono perseguitati, incarcerati e barbaramente uccisi. Non sono bastati l’editto di Costantino, la rivoluzione francese, la nascita delle democrazie moderne o delle Nazioni Unite: ogni epoca, compresa quella attuale, ha conosciuto persecuzioni verso i cristiani, da quelle più cruente come il genocidio vandeano, a quelle più occulte e subdole come l’apartheid nel Pakistan di Asia Bibi. Si stima che ogni anno muoiano circa ottomila fedeli nel silenzio colpevole di media e istituzioni. Donne, uomini e bambini trucidati semplicemente perché credenti in Cristo. Nel tempo, come profetizzato dallo stesso Gesù, l’odio contro i cristiani e il martirio sono entrati nel codice genetico del cristianesimo:

“Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (Mt 10,22)

“Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome” (Lc 21, 12)

“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15, 18)

Quest’ultimo passo del Vangelo di Giovanni indica quasi un pattern della fede in Cristo, ovvero quello dell’anticonformismo. Se si è realmente credenti, è inevitabile che il mondo provi rancore, perché la fede – come amava ripetere Don Luigi Giussani – è “una cosa dell’altro mondo, in questo mondo”.

Lo dice a chiare lettere l’evangelista Luca nel passo del Discorso della Montagna:

“Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo […] Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6, 22.26)

Ma Gesù si spinge ancora più in là e in seguito annuncia: “Pietro allora gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva gia al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna»” (Mc 10, 28-30). La persecuzione subìta non è dunque solo prova di veracità della fede, ma addirittura caparra del premio finale che è la vita eterna.

Di fronte all’odio più profondo la risposta giusta non è la vendetta ma l’amore, perché Deus caritas est, Dio è misericordia. “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano […] Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso” (Lc 6, 27-32) Come acutamente osservò Tertulliano, “amare gli amici lo fanno tutti, i nemici li amano soltanto i cristiani”.

Si intuisce dunque come in quest’ottica abbia poco senso parlare di “guerra di religione” se non altro perché per combattere una guerra bisogna essere almeno in due.

Se il cristianesimo non è belligerante – assente ingiustificato del conflitto per colpa del Papa, secondo i seguaci della visione veterotestamentaria – viene dunque da chiedersi se l’Islam lo sia. Sempre secondo i fan del “Dio degli eserciti” la risposta non può essere che un secco e perentorio “sì”. Il fondamento dottrinale di questa risposta viene ricercato nel celebre discorso che il pontefice emerito Benedetto XVI pronunciò all’Università di Regensburg nel settembre del 2006. In quella occasione, a partire dal passo di una disputa dell’imperatore bizantino Manuele II (“Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane […] Dio non si compiace del sangue non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…”) e dalla sura 2,256 del Corano (“nessuna costrizione nelle cose di fede”), Ratzinger poneva l’accento sulla differenza tra un Dio profondamente legato alla categoria della ragione umana (“la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia”) e un Dio assolutamente trascendente e slegato da qualsiasi categoria umana, compresa la razionalità, come quello della fede musulmana.

Ora, chi si è fermato alla lettura della prima metà di questo discorso può effettivamente avere scorto un riferimento negativo alla fede islamica, che il pontefice di allora si è però premurato di smentire già nelle note a piè di pagina del suo stesso discorso (“Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione  della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione”). L’intenzione del discorso non era dunque quella di fomentare un contrasto tra cristianesimo e Islam, quanto evidenziare che un cristianesimo senza ragione non si può definire tale. L’atto di accusa viene rivolto semmai contro il processo di deellenizzazione messo in atto dall’età moderna, che ha spogliato la ragione di ogni riferimento alla religiosità, lasciando il campo alla ragione positivista che si è arrogata il diritto di autoproclamarsi universale. Tale riflessione si pone dunque in un solco totalmente coerente con quanto già enunciato da Giovanni Paolo II nel 1998 nella memorabile Fides et Ratio.

Secondo Benedetto XVI se la frattura tra fede e ragione non viene sanata non è possibile nemmeno il dialogo interreligioso, nel quale la ragione positivista non si può sostituire a nessuno dei soggetti: “le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture”.

Ciò che la Chiesa deve temere di più non è dunque le persecuzioni o l’Islam, ma la separazione che la modernità ha segnato tra fede e ragione. Pochi giorni prima di salire al soglio pontificio Ratzinger ebbe a dire in un convegno tenuto a Subiaco: “La vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra. Se si arriverà ad uno scontro delle culture, non sarà per lo scontro delle grandi religioni – da sempre in lotta le une contro le altre ma che, alla fine, hanno anche sempre saputo vivere le une con le altre –, ma sarà per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche. Così, anche il rifiuto del riferimento a Dio, non è espressione di una tolleranza che vuole proteggere le religioni non teistiche e la dignità degli atei e degli agnostici, ma piuttosto espressione di una coscienza che vorrebbe vedere Dio cancellato definitivamente dalla vita pubblica dell’umanità e accantonato nell’ambito soggettivo di residue culture del passato”.

Non deve dunque sorprendere se nessuno degli ultimi pontefici si sia mai scagliato contro l’Islam, anzi abbia cercato di costruire momenti di dialogo, speranza e preghiera comune nella certezza che solo recuperando l’intima connessione tra religiosità e razionalità l’uomo possa camminare sulla strada del bene. Continuare a perorare la causa della guerra significa invece, oltre a non aver compreso le stesse parole che si portano a giustificazione della propria posizione, dirigersi esattamente nella direzione opposta.

 

 

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