Medio Oriente
La maggioranza dei siriani scappa dalle bombe di Assad, non dall’Isis
Non vogliono restare in Europa e l’Isis non è ciò da cui scappano. Sono i risultati emersi dal primo sondaggio “Let the Syrian speak” condotto da Adopt a Revolution insieme a The Syria Campaign e Planet Syria, somministrato ai rifugiati siriani giunti nei campi profughi tedeschi e supervisionato da Heiko Giebler, ricercatore presso il Centro di Scienze Sociali dell’università di Berlino.
Anche se lo studio non può competere con gli standard dei sondaggi, poiché non ci sono dati esatti sulla distribuzione e sulle caratteristiche socio-demografiche dei rifugiati siriani, l’indagine ha comunque il merito di fornire delle informazioni sulle principali tendenze. Come spiega Elias Perabo di Adopt a Revolution, “lo studio è servito innanzitutto a parlare con i rifugiati siriani. Era importante ascoltare la loro voce, spesso ignorata, per cercare di capire quali sono realmente le cause che li spingono a lasciare la Siria”.
Il 92% degli intervistati ha dichiarato di essere fuggito dalla Siria a causa dei combattimenti in corso e più dei due terzi (il 70%) ha attribuito la responsabilità all’esercito regolare di Bashar al-Assad, il 30% all’Isis, il 18% al Free Syrian Army, il 16% a Jabhat Al Nusra (il corrispondente di Al Qaeda in Siria) e l’8% alle forze curde.
Source: Survey – Le domande del questionario erano a scelta multipla
Le motivazioni economiche o il desiderio di ottenere un passaporto europeo non rappresentano la principale ragione di fuga dal paese. Agghiacciante il dato sulla violenza esercitata dal regime di Assad; il 92% delle persone intervistate scappa dal regime per paura di essere arrestato, l’86% per il timore di essere rapito mentre il 73% per i barili-bomba lanciati dall’aviazione lealista.
I barili-bomba sono armi non convenzionali fabbricate artigianalmente con scarti di ferro, acciaio ed esplosivo, lanciate dagli elicotteri sulla popolazione civile. In un report pubblicato alla fine del 2014, Amnesty International ha condannato l’uso dei barili-bomba dichiarandoli un “crimine di guerra”. Queste armi sono distruttive e imprecise, e, come spiega agli Stati Generali Hania Mourtada, esperta di barili-bomba e portavoce della campagna Syria Campaign, “l’effetto dei barili-bomba è devastante perché le schegge si propagano anche molto lontano, colpendo principalmente civili e causando lo spopolamento di interi quartieri. Assad li usa come punizione collettiva per le comunità che si sono sollevate contro di lui e come metodo di spopolamento di quelle aree controllate dai ribelli per evitare che istituzioni alternative possano radicarsi.”
Il Syrian Network for Human Rights, un’organizzazione non governativa indipendente per i diritti umani, riporta nel Report sul massacro di Douma, avvenuto lo scorso agosto: “I barili-bomba sganciati dalla forza aerea di Assad su due mercati e su un’area residenziale hanno causato la morte di 122 persone, inclusi 11 bambini e 485 feriti”. Sempre secondo il gruppo di attivisti tra gennaio e luglio, l’esercito di Assad e le milizie sciite che combattono a fianco del regime hanno ucciso 7894 persone mentre Daesh – l’acronimo che indica lo Stato Islamico – 1131.
Per molti siriani il problema principale non è lo Stato Islamico ma il regime di Assad; leggendo sempre i dati dell’indagine emerge che il 78,6% delle persone intervistate accusa il regime e l’intervento militare di essere la principale causa dell’attuale situazione in Siria e più del 50% tornerebbe nel proprio paese solo a condizione che Bashar al-Assad non fosse più al potere.
Il 57,9% dei rifugiati intervistati ritiene che la creazione di una no-fly zone potrebbe rappresentare una soluzione per fermare il flusso di persone in fuga dalla Siria.
Tenendo in considerazione la difficoltà di verificare sul terreno la stragrande maggioranza delle notizie che arrivano dalla Siria, non si può negare che tutti i governi siano oggi ossessionati più dall’Isis che dal regime di Bashar al-Assad, dipinto come il male minore.
I due governi con il maggiore potenziale per influenzare Assad, Iran e Russia, continuano a fornire armi al regime, Washington sta facendo delle pressioni su Mosca per coordinare le operazioni anti-Isis e l’Unione Europea discute sulle quote di assegnazione dei rifugiati nei paesi europei ma poco ha fatto per affrontare le atrocità che spingono i siriani a fuggire.
I paesi occidentali farebbero bene ad abbandonare il collaudato principio del divide et impera e a comprendere che la complessità dei meccanismi sociali e politici in atto in Siria non sono il frutto di eventi cominciati nel marzo 2011. Se si vuole un futuro per la Siria sarebbe auspicabile iniziare a considerare le dimensioni socio-geografiche e il mosaico comunitario che la caratterizzano ma soprattutto iniziare ad ascoltare le voci di chi dalla Siria scappa.
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