Medio Oriente

Il pianeta ISIS tra media, guerra e ideologia

19 Dicembre 2014

L’abilità dell’ISIS nel fare propaganda e reclutare nuove leve è ormai nota a tutti. Infatti, dalla nascita del califfato nel luglio 2014, i “giornalisti” di al-Baghdadi hanno dato vita ad una campagna mediatica talmente strutturata e diversificata (dal magazine DABIQ ai videogiochi, ai video diffusi attraverso i social network) che ha dato i suoi frutti sin dall’inizio, spingendo circa 13000 foreign fighters provenienti da almeno 81 paesi stranieri a recarsi in Siria e in Iraq al fianco dell’ISIS negli ultimi 3 anni.

Mentre con il proseguimento della guerra il network a disposizione dell’ISIS si è rafforzato e la minaccia globale degli attacchi terroristici è cresciuta sensibilmente, i metodi utilizzati per reclutare nuovi jihadisti oltre i confini del califfato sono rimasti essenzialmente immutati. Quando i suoi sostenitori non possono compiere l’hijra, ovvero recarsi sul campo di battaglia, l’ISIS li invita o ad agire singolarmente e a compiere attacchi contro il nemico (vedi il caso di Sidney), o a formare gruppi in grado di agire nel “paese di residenza” dopo aver dichiarato la propria  bay’a (dichiarazione di fedeltà) nei confronti del leader al-Baghdadi.

Ma dove si trovano e quanti sono  i gruppi fuori dalla Siria e dall’Iraq che hanno ufficialmente dichiarato fedeltà all’ISIS (N.B. non ad al-Qaeda) e agiscono esclusivamente in suo nome? I dati tratti da uno degli ultimi rapporti dell’Institute for the Study of War riportano che il 13 novembre al-Baghdadi aveva dichiarato la nascita di nuove province (wylaiats) nel Sinai, in Algeria, Libia, Arabia Saudita e Yemen. Mentre negli ultimi due paesi, per ragioni diverse (ad esempio il susseguirsi di diversi arresti in Arabia Saudita e la presenza di al-Qaeda in the Arabian Peninsula – AQAP – in Yemen), non si è ancora affermato nessun gruppo, nel Sinai lo ha fatto la formazione Ansar Bait al-Maqdis, affiancata da alcuni ufficiali dell’ISIS. In Algeria è presente il gruppo Jund al-Khalifah, che ha esordito con l’omicidio del francese Herve Gourdel. La Libia merita un’analisi più dettagliata, ma gli ufficiali dell’ISIS sono giunti anche qui, dove diversi combattenti hanno giurato fedeltà al califfo.

Esistono poi altri gruppi, che agiscono in aree diverse. Tra questi, ben cinque nel sud est asiatico: Mujahideen East Timor (MIT) in Indonesia, Ansar al Khalifah, Abu Sayaaf Group, Bangsmoro Islamic Freedom Fighters (BIFF) e Bangsmoro Justice Movement (BJM) nelle Filippine. Caliphate and Jihad Movement, Jundullah e Tehrik-e-Khalifat, invece, sono gruppi stanziati in Pakistan, mentre Al Tawhid Battallion si muove tra Pakistan ed Afghanistan. Quelli sopra citati hanno tutti confermato il loro sostegno esclusivamente all’ISIS. Se aggiungiamo i gruppi “simpatizzanti”, come Boko Haram, Khorasan, al-Qawqaz e altri vicini ad al-Qaeda che combattono per ragioni “proprie”, e a questi i siti internet e i blog che predicano la jihad, ecco che le potenzialità del terrorismo islamico crescono ad un ritmo elevato. Altro problema da non sottovalutare è quello dei rifugiati siriani, che vivendo in condizioni disperate sono sempre più vulnerabili e rappresentano il target perfetto per i reclutatori di ISIS, Jabhat al-Nusra e Co.

Si comprende facilmente, quindi, che il terrorismo non potrà mai essere sconfitto definitivamente. La war on terror di G.W. Bush si è dimostrata tristemente inutile e ha soltanto ingrandito il problema. A questo si aggiungono le ultime rivelazioni sulle tecniche utilizzate dalla CIA nel corso degli interrogatori dei presunti terroristi, che legittimano la diffusione di un crescente sentimento di anti-americanismo. Il modo in cui la comunità internazionale gestirà la minaccia del terrorismo nei prossimi anni sarà quindi fondamentale per evitare il peggio. Ovviamente nessuno ha la soluzione giusta per una questione così delicata, ma la cosa certa è che alla guerra combattuta sul campo, con le armi, se ne dovrebbe affiancare una ideologica, strutturata su valori e diritti umani universali in grado di contrapporsi alle armi più forti del terrorismo islamico, ovvero la forza e il fascino dell’ideologia jihadista. E tutto ciò si ricollega alla questione dei foreign fighters. Perché sono queste le armi che continuano ad attrarli, tutti in cerca di una ragione di vita, di un obiettivo e di qualcosa di più grande che l’Occidente non è in grado di offrirgli.

Questa si che sarebbe una guerra preventiva.

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