Roma
I morti di via Fani
Il 16 marzo 1978 costituì una data di svolta nella storia politica del nostro Paese e, certamente, contribuì all’accelerazione della crisi della cosiddetta prima Repubblica.
Il rapimento di Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana costituì il punto più alto della strategia eversiva messa in atto dalla Brigate rosse ma anche del sostanziale fallimento della strategia eversiva manifestatasi incapace di raccogliere quel consenso senza il quale quanto avevano fatto non aveva senso e incapace di piegare lo Stato ad una trattativa che lo avrebbe evidentemente delegittimato.
Quella mattina, alle ore nove, un commando di brigatisti bloccò l’auto sulla quale viaggiava Moro e quella di scorta, quasi immediatamente i terroristi facevano fuoco colpendo i cinque uomini della scorta. Quattro di loro, a cominciare dal caposcorta, maresciallo Oreste Leonardi, cadevano senza avere avuto la possibilità di difendersi, solo l’agente Raffaele Iozzino riusciva ad uscire dalla macchina di scorta, una 128 Fiat, ed ad accennare una risposta.
Tentativo frustato da una pallottola che la raggiungeva alla fronte e, colpito a morte, stramazzava a terra. Moro, rimasto indenne, viene a forza tirato fuori dall’auto e portato via. Una strage che, la importanza del personaggio sequestrato, fa quasi passare in secondo come notizia, in secondo piano. Le vittime erano uomini che da tempo seguivano il presidente della DC e il maresciallo Oreste Leonardi – il cui corpo era stato ritrovato in una posizione che faceva presupporre un tentativo estremo di protezione del leader democristiano – Moro aveva perfino una certa familiarità.
I giorni successivi al rapimento furono riempiti dalla rappresentazione tragica della gestione del prigioniero. Il ripetersi dei comunicati deliranti delle Brigate rosse, i tanti depistaggi e false notizie sull’esecuzione del prigioniero, i presunti canali di trattativa aperti, le dichiarazioni di uomini politici, di intellettuali e chierici sulla necessità di salvare l’uomo ma, soprattutto, le tante lettere che il presidente della Democrazia cristiana, considerato dalle BR detenuto politico, inviate dal covo e indirizzate soprattutto ai suoi compagni di partito.
Su quelle lettere si è scritto tanto, Leonardo Sciascia in un suo famoso pamphlet , L’affaire Moro, ha perfino elaborato una sua tesi, molto forzata, per la quale il vero Moro sarebbe quello delle lettere e non l’uomo politico di grande esperienza, il tessitore di formule, l’uomo di potere che dalla Costituente in poi era stato uno dei protagonisti della vita pubblica italiana.
Pochi, anche per ragioni di rispetto per la vittima “innocente” della follia di un pugno di fanatici, hanno dato delle stesse una lettura più realistica che mette in dubbio la lucidità dell’uomo segregato e quindi non libero di esprimere pienamente il proprio pensiero se non addirittura non più in grado psicologicamente di manifestare un pensiero coerente.
In quelle lettere, è un dato innegabile, c’è anche tanta cattiveria e tanta poca generosità nei confronti di chi aveva condiviso grande parte della sua vita pubblica, un fatto sorprendente per un uomo sempre cauto e molto attento nel giudizio che, a quanto si dice, non era mai uscito fuori dalle righe.
Ma la sorpresa maggiore, e qui ritorniamo al momento della strage, è che in quelle lettere non c’è alcun riferimento agli uomini della scorta caduti anche per difendere la sua persona, come se la pietà ed il dolore in lui fossero stati bruciati dall’egoistico, ma pur legittimo, e ossessivo pensiero di riuscire a salvare la vita anche attraverso scritti che, in qualche modo, avrebbero potuto incontrare il plauso o il gradimento dei suoi carnefici.
Un fatto sconvolgente, non coerente con la personalità dell’uomo Moro,un fatto che su cui la retorica corrente passa sopra. Leggevo, nel bel libro di Damilano, una sorta di critica perché nella laide collocata in via Fani siano scolpiti solo i nomi dei servitori dello Stato caduti in quel giorno tragico e non sia stato inserito il nome di Moro.
Ebbene, alla luce di quanto è accaduto mi sembra di dover dire che quella laide è l’unica testimonianza vera, l’unico modesto tributo a chi in effetti è stato cancellato da una memoria sopraffatta dalla retorica.
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