Terrorismo
I freelance del terrore e la città contemporanea
Qualche giorno fa il Corriere della Sera titolava “il marchio dell’ISIS sulla strage” quasi a voler porre una questione di brand identity circa le azioni che stanno mettendo sotto scacco le città di mezzo mondo. E mi è venuta in mente un famoso marchio immobiliare in franchising che, per ogni agenzia, puntualizza come “ogni agenzia ha il proprio titolare ed è autonoma”, quasi a volere tutelarsi contro eventuali disservizi che possano ledere il proprio buon nome e immagine. Nel caso dell’IS, invece, siamo in presenza di una casa madre che si assume la paternità di tutte le azioni che compiono i suoi affiliati – ufficiali o solo “simpatizzanti” – per accrescere il proprio prestigio e accreditarsi presso i governi nazionali quale unico promotore del terrore internazionale. Un franchising supportato da una fitta rete di freelance, disposti a tutto pur di portare avanti una missione non esplicitamente richiestagli. Una simile capillarità e viralità – l’azione nella metropolitana di Londra ne è una triste conferma – utilizza come campo di battaglia la città contemporanea non pensata per la guerriglia, ma per grandi spiegamenti di mezzi e forze. Senza dovere ricordare gli sventramenti haussmaniani di Parigi, concepiti anche per fare fronte a eventuali sommosse, suscita un certo effetto vedere le immagini di Bruxelles assediata dall’esercito e blindata con barricate composte da autobus di linea. Appare chiaro come la militarizzazione pesante dello spazio urbano possa fare poco contro un nemico liquido capace di assumere diverse forme e configurazioni, di leggere i contesti in cui opera in maniera più efficace delle forze “ufficiali”. Riaffiorano dalla memoria i fotogrammi televisivi in cui le città siciliane apparivano presidiate dall’esercito nella famosa operazione “Vespri siciliani”, attuata poco dopo il periodo “terroristico” della mafia. Blindati e accaldati alpini erano diventati la fauna di un nuovo ecosistema urbano in cui i percorsi, i flussi, le consuetudini e le norme urbane si erano trasformati in relazione alle nuove esigenze di sicurezza.
Ma oggi il nemico è potenzialmente dappertutto, non ha bisogno della “punciuta” o di baciare un boss per poter agire e trasformare istantaneamente piazze, musei e stadi in campi di azione violenta. In questa sorta di sharing terrorism, l’hardware urbano sta subendo un’obsolescenza rapidissima – non programmata con questa velocità – e le prassi tradizionali sembrano inefficaci. Così come l’economia tradizionale ha dovuto fare i conti con l’economia della condivisione chissà se le città dovranno innescare delle contromisure nella pianificazione e nella gestione del territorio per evitare un irreversibile processo di autoreclusione. Perché, nonostante diverse iniziative abbiano dato qualche risultato in questa direzione, la capacità destabilizzatrice degli eventi violenti di questi giorni sta mettendo a dura prova l’approccio inclusivo di quei processi virtuosi riguardanti la riconsiderazione dello spazio urbano come luogo pubblico.
Salvaguardare l’uso della città, in ogni sua forma, rimane l’unico atto concreto con cui fronteggiare qualsiasi estremismo e con cui disinnescare la percezione d’insicurezza di cui il terrorismo si nutre.
Trasformando l’inutile durezza di un muro nella porosa reattività di una membrana.
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