Geopolitica

Giovani e internazionalisti: il terrorismo colpisce il sogno di Amara Suruc

21 Luglio 2015

Chi conosce Kobane ha sentito parlare di Suruc, chi è entrato o uscito da Kobane è passato da Suruc. In un attimo, meno di 24 ore fa, una deflagrazione ha fatto a pezzi 31 ragazzi, e ferito altri cento di loro, mentre discutevano della ricostruzione di Ayn Al Arb, la “loro” Kobane, simbolo di resistenza curda contro lo Stato Islamico, che alla fine ha rotto l’assedio, e che ora deve essere ricostruita. Anche loro erano arrivati a Suruc, in circa 300, provenienti dalla Federazione dei Giovani Socialisti di Istanbul, e volevano passare il confine. L’autorizzazione gli era stata negata dalla prefettura, e per questo avevano deciso di organizzare una conferenza stampa. Si erano dati appuntamento nel giardino di Amara, centro di cultura curda diventato negli ultimi due anni crocevia di profughi, ex combattenti e aspiranti tali, parenti di uomini e donne al fronte, attivisti, giornalisti, fotografi, videomaker di ogni parte del mondo. E ora luogo di incontro per progettare una nuova Kobane, dieci km di distanza e un confine molle che separa la Turchia dalla Siria.

Suruc aveva 45 mila abitanti quando Amara, otto anni fa, guadagnava una sede autonoma, di proprietà municipale, per fare musica, teatro, spettacoli, mostre, corsi per i bambini e gli adulti. Uno spazio vivo di promozione della cultura curda, così a lungo negata e per questo rivendicata con forza. Jiyan aveva 19 anni quando è diventata direttrice, e da allora l’ha visto trasformarsi e riadattarsi alle nuove emergenze della guerra in Siria. Qualche mese fa, a 27 anni, e prima della fine dell’assedio di Kobane, raccontava di quando erano arrivate le prime ondate di profughi che attraversavano il confine a piedi perché gli veniva impedito di entrare in territorio turco con le auto, oggi carcasse accatastate nella vallata. Nel frattempo la popolazione di Suruc è più che raddoppiata, dopo aver accolto oltre 200 mila persone soltanto nel mese di ottobre 2014, in un paese come la Turchia che – dati UNHCR aggiornati al 9 luglio  – oggi conta un milione e 800 mila rifugiati siriani registrati.

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Da settembre dello scorso anno chi non trovava posto nelle tende dei campi profughi bussava alla porta di Amara. “Abbiamo avuto fino a mille persone per notte che dormivano fra le stanze e la tenda in giardino – diceva orgogliosa – mentre ora continuiamo a raccogliere i farmaci per chi ha bisogno, e non bastano mai,  e a censire le persone per avere un’idea di quali siano i numeri di questa emergenza”. Col tempo il lavoro di Amara si era spostato fuori, ma il quartier generale era sempre rimasto lì, dove si continuavano a coordinare gli aiuti, e ad organizzare le macchine e i minivan per gli spostamenti verso il confine.

La sera, nel piccolo caffè all’interno, persone arrivate da mezzo mondo si scambiavano opinioni e materiali raccolti durante il giorno. Cenavano insieme e cercavano di dividersi la connessione wi-fi fra un black out elettrico e l’altro. Non ci sono mai stati controlli all’ingresso. Né in giardino né per accedere all’interno. Nessuno ha mai pensato di bloccare gli accessi per ragioni di sicurezza. Era, prima di ieri, solo un luogo di incontro. Oggi si è trasformato nel luogo di un massacro. In una cittadina tanto strategica quanto modesta, lungo la strada principale che porta in periferia ai due campi profughi più grandi, e nell’altra direzione verso la piazza centrale, un quadrato lastricato con piccoli negozi e qualche panchina polverosa, con gli ambulanti che vendono pennelli da barba, fazzoletti di carta, piccoli specchi. E di fronte il monumento che rappresenta la melagrana, con i suoi acini di cemento, dello stesso colore della terra che ricopre l’asfalto. I blindati a Suruc erano solo davanti alla locale stazione di polizia, con giovanissimi in divisa che ricordano quanto la Turchia abbia forse ancora paura dei suoi curdi.

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Il confine turco-siriano poco lontano è da sempre una linea di separazione più ideale che concreta. I campi di grano sono gli stessi, da una parte e dall’altra. Kobane è la prima città siriana, Mesher l’ultimo villaggio turco, poche anime nell’area agricola di Suruc. In mezzo anche una distesa di mine, almeno 600 mila, disseminate dall’esercito di Ankara fra il 1957 e il 1998, ennesima sfida per chi attraversa, che vada a combattere o che stia fuggendo dalla guerra.

L’attentato è stato subito attribuito allo Stato Islamico dalle autorità curde locali, e considerato una rappresaglia dopo le perdite subite negli ultimi scontri di un mese fa, avvenuti a Kobane a seguito di altri tre attacchi suicidi. Si tratta comunque del primo episodio del genere compiuto su suolo turco, che ha scatenato una serie di manifestazioni e sit in di protesta, in cui i curdi hanno rivendicato il diritto di essere protetti. A Istanbul, in piazza Taksim, ci sono stati anche scontri con la polizia, intervenuta a disperdere la folla.

Questa strage rischia di fomentare il risentimento delle province del sud est del paese nei confronti del governo centrale, più volte accusato di aver chiuso gli occhi di fronte al passaggio incontrollato di jihadisti diretti in Siria, purché entrassero in chiave anti-Assad, o addirittura di averli aiutati nel transito, fornendo loro anche armi e mezzi. D’altronde non è un mistero che l’esercito turco non abbia fatto nulla per aiutare i curdi nella battaglia di Kobane, nonostante una velata apertura di Erdogan nei confronti del leader curdo Ocalan, tuttora rinchiuso nel carcere di Imraeli, nel Mar di Marmara. Un’operazione politica da portare avanti anche e soprattutto dopo il voto del 7 giugno scorso, che ha visto l’Akp perdere la maggioranza assoluta dopo 13 anni e l’Hdp, Partito Democratico curdo, superare lo sbarramento del 10%.

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Ma qualsiasi apertura, o nuove, annunciate misure di controllo lungo il confine, non cancellano la paura della Turchia per l’ipotesi di un grande Kurdistan, più temibile della  presenza del califfato dietro la porta di casa. Perché se Erdogan intrattiene proficui rapporti con il Kurdistan Iracheno, soprattutto in funzione economica per il rifornimento di greggio, è pur vero che in ragione della pianificazione di un Rojava autonomo dei curdi siriani, la questione legata all’autodeterminazione dei curdi turchi rischia di radicalizzarsi nuovamente. In un contesto di probabili, nuove rivendicazioni di autonomia, lo Stato Islamico spezza un continuum territoriale, e allontana per Ankara il rischio di perdere la partita interna prima di aver negoziato la chiusura dei conti con il Pkk, senza rischiare voti e ulteriore consenso. Almeno prima dell’attentato di Suruc, del 20 di luglio.

 

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(Le fotografie sono di Ilaria Romano)

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