Terrorismo

Francia in guerra, guerra alla Francia

15 Luglio 2016

Alla fine di settembre scorso, il governo francese del presidente Francois Hollande annuncia l’inizio dei bombardamenti in Siria. Come scrivono Jean-Baptiste Jeangéne Vilmer e Olivier Schmitt su War on the Rocks, dopo anni, le armate francesi tornano al centro della politica internazionale.

In molti, in questi giorni, hanno collegato gli attacchi dello scorso 14 novembre 2015 a Parigi con una reazione dei miliziani integralisti alle scelte di Parigi. Un esercizio che non mancherà di essere svolto anche oggi, 15 luglio, all’indomani del sanguinoso atto di terrore di Nizza. Nelle rivendicazioni arrivate nelle ore seguenti al massacro di Parigi, peraltro, ci sono stati riferimenti diretti al coinvolgimento delle truppe francesi nei teatri di conflitto, ma non basta questo da solo a confermare un legame diretto.

Di sicuro, però, per la prima volta dal gran rifiuto di Jacques Chirac di prendere parte alla coalizione guidata dagli Stati Uniti che nel 2003 per l’invasione in Iraq, la Francia prende posizione (e azione) nella guerra permanente che oramai da quindici anni si combatte in giro per il mondo. Con risultati pessimi.

Una mappa dell’intervento militare francese nel mondo è, per quanto sintetica, impressionante: Libia nel 2011, Mali nel 2013, l’Operation Barkhane in Mali, Chad, Niger, Mauritania, e Burkina Faso dal 2014, Repubblica Centrafricana nel 2014, Iraq in 2014. E Siria nel 2015.

Dalla fine del colonialismo, in totale, la Francia aveva partecipato a contingenti internazionali delle Nazioni Unite in Benin, Congo, Costa d’Avorio, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Liberia, R.D.Congo, Ruanda, e Somalia. E ancora Libano (dal 1978), nel Sinai egiziano(dal 1982), in Iraq (1990-1991), in Cambogia (1992-1995), nella ex Jugoslavia (1992-2014), in Afghanistan (2001-2012), in Colombia (2003), ad Haiti (dal 2004), e nell’Oceano Indiano (dal 2008).

Il dato che colpisce è da un lato quello numerico, in riferimento a un periodo storico molto più lungo, e militare, visto che oltre all’escalation di interventi all’estero, al posto di una netta maggioranza di missioni Onu alle quali la Francia ha contribuito (come tutti) con i caschi blu, si distinguono dal 2011 in poi vere e proprie missioni combattenti.

In totale sono oltre 7mila i militari francesi impegnati nella missione Sangaris, in Repubblica Centrafricana, nell’operazione Barkhane, dove il contingente francese è impegnato in cinque diversi Paesi della regione (Niger, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Ciad) e conta al momento 3mila soldati. Dal 1 luglio è operativa la base militare di Madama, al confine tra Libia e Niger, che consentirà di sorvegliare i flussi di armi e di combattenti dalla Libia diretti verso sud. L’operazione Barkhane, che ha preso il posto della missione francese Serval in Mali (gennaio 2013-luglio 2014), ha per obiettivo il monitoraggio della stabilità nel Sahel e lo smantellamento dei flussi jihadisti transfrontalieri. A questi effettivi, si aggiungono gli oltre 12mila militari francesi impegnati nel mondo con l’Onu.

Di pari passo con questo impegno all’estero, l’agenda nazionale ha visto il varo dell’Operation Sentinel, che dispiega oltre 10mila uomini sul territorio francese. Impegno che, già prima del massacro del 14 novembre, non dà risultati. L’anno transalpino, a livello di sicurezza, è drammatico: Charlie Hebdo a gennaio, Villejuife ad aprile, Isére a giugno e Thalys ad agosto. Uno stillicidio di attacchi terroristici che tengono il Paese con il fiato sospeso, anche in previsione degli Europei di calcio della prossima estate.

La guerra, come sempre, prima o poi, arriva in casa. E il cambio di posizionamento sullo scacchiere internazionale non ha dato gli esiti sperati. Perché, negli ultimi cinque anni, l’Eliseo ha mutato tanto radicalmente le sue scelte in politica estera?

Tranne la Libia nel 2011, dove andava sanato il fallimento diplomatico della Tunisia (dove il governo francese fino all’ultimo ha tentato di salvare Ben Alì) e andavano difesi gli interessi strategici della Total, si fatica a leggere le scelte interventiste di Parigi.

Una chiave di lettura è di sicuro quella del cosiddetto ‘reticent power’ degli Usa in Medio Oriente e in Africa. E’ ormai, da tempo, evidente che l’amministrazione Obama ha ridotto il suo coinvolgimento nell’area. Questo, come per l’intervento della Russia in Siria, ha riaperto un teatro dove da anni gli europei e gli altri erano solo comprimari.

La Francia, complice anche una Gran Bretagna provata dalle esperienze in Afghanistan e Iraq, si è trovata da sola a vedere deflagrare – come mai prima – una parte di mondo che non può lasciarla indifferente. Dal dilagare delle milizie nell’Africa francofona alla sfera di influenza nordafricana, a Siria e Libano, storicamente importanti per Parigi.

A questo vuoto da riempire, si aggiunge la tensione interna di un’opinione pubblica che si sente minacciata dal pericolo di attacchi, ma che non vede scelte chiare dell’esecutivo Hollande. La destra, pur con un comportamento ben lontano dalle strumentalizzazioni cui si assiste in Italia, si candida a soluzione del problema sicurezza, in buona compagnia con i vertici delle forze armate francesi, che alla sola notizia di un taglio delle spese della Difesa hanno minacciato le dimissioni di massa.

Il paradigma dello stroncare alla radice un male che mette in discussione la sfera d’influenza francese all’estero e l’identità stessa della Republique in patria, considerato la multiculturalità della società francese, è al momento l’unica strategia che Parigi ha messo in campo. Ma i fallimenti continui – per ora – palesano come la soluzione militare si stia rivelando un boomerang.

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(originariamente pubblicato il 16 novembre 2015)

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