Terrorismo
Fanatici, i nuovi padroni del tempo presente
A 10 anni dall’attacco a “Charlie Hebdo” conviene fare un bilancio. Il dato non è confortante. Ignoro che cosa sarà detto nei prossimi giorni avvicinandosi il decimo anniversario dell’assalto alla redazione di “Charlie Hebdo”. Nessuno esprimerà sostegno agli esecutori. Ho la sensazione però che per molti, proprio per l’insopportabilità che molti hanno maturato in questo decennio per la satira, ricordare quell’episodio sia fastidioso. Non dico che il loro cuore sia con gli assassini, ma il loro immaginario non si discosta molto da quello. Viviamo in un tempo in cui per buona creanza nessuno dice la parola “razza” anche se molti riversano quando pronunciano e rivendicano per sé “etnia”, “nazione”, “comunità”, riversano ciò che pensano sia “razza”. Ma la convinzione profonda credo, sia che i vignettisti di “Charlie Hebdo” se la sono andata a cercare e se fossero stati più prudenti tutti noi si avremmo guadagnato.
Io penso, invece, che chi ha perso sono gli anti fanatici. Per anti fanatici intendo coloro che volevamo e sostenevamo una critica radicale alle appartenenze come tavola di valori immodificabile nel tempo. Quell’atto non era l’inizio di un confronto serrato, ma la sanzione di una egemonia che da allora è più forte, segnata dal linguaggio fanatico che coinvolge anche coloro che si fanno estremi difensori di “Charlie Hebdo”. Estremi difensori, non perché abbiano a cuore la satira (che non ammettono nei confronti dei propri), ma perché il loro nemico sono gli altri fanatici. Per poter contrastare questi e quelli, ovvero e provare a dare una possibilità alla risposta antifanatica, non abbiamo molti strumenti. Non servono slogan, ma procedure di riflessione che siano di supporto al riscatto della satira.
Ne propongo due che nascono da chi con i fanatici ha avuto molto a che fare.
Il primo.
Riprendere in mano le pagine che Amos Oz scrive e pubblica sulle soglie della morte e che raduna poi in Cari fanatici. Il fanatico, dice Oz, è un punto esclamativo deambulante. Lo siamo tutti un po’ perché vogliamo rimodellare gli altri per il loro bene. Il desiderio di rimodellare l’altro è il primo grado del fanatismo. Il vero fanatico non è interessato alle persone concrete né alla vita sociale quotidiana. Vuole un mondo in cui tutti si assomigliano, sono tutti uguali, e quindi non esiste più l’altro.
Un segno inequivocabile proprio del fanatico è la mancanza del senso dell’umorismo. E aggiunge. Non esistono solo i fondamentalisti religiosi e politici. Esiste anche un fanatismo identitario. I fondamentalisti non sono solo dei radicali convinti che la loro fede vincerà e che per accelerare quel tempo indossano l’armatura e l’investitura di Dio come missione rigenerativa. Sono persone che credono nella loro identità e non sopportano che nessun altro ne discuta, se non loro. Ovviamente non sopportano voci diverse.
Il secondo.
Non mollare Voltaire. All’indomani del 7 gennaio 2015 Fernando Savater cura un’antologia di scritti di Voltaire contro i fanatici, proponendo una sorta di versione aggiornata di dizionario filosofico per i nuovi tempi del fanatismo imperante. Era una buona pista di lavoro e sarebbe opportuno tenerla cara. In italiano ne è uscita una versione nel 2016, mai più ristampata (peccato!). Di quel testo terrei cari alcuni lemmi.Per esempio: Fatalismo (2); Filosofi (1); Male (4); Patria. Ma, soprattutto l’ultimo dei “quattro esercizi voltairiani che chiudono il libro e fanno da appendice al lemmario di Savater. Il titolo di quell’esercizio è L’hobby di uccidere. In quelle tre pagine Savater descrive l’antropologia dei fanatici. E ne in dividua due aspetti: il primo, quello più immediato, ovvero il fatto che nella rivolta dei fanatici quelli disponibili all’azione omicida siano giovani. In breve il fanatismo è una rivolta di ventenni.
Il secondo è più profondo: chi uccide per fanatismo non sente responsabilità dell’atto. A differenza dell’omicida, non prende su di sé il carico della sua azione. Forse la ritiene non giudicabile dagli umani perché il suo atto risponde solo a Dio. È una conclusione ricca di contenuti. Dieci anni dopo bisogna fare un passo in più.
A me pare che nessuno dei fanatici omicidi abbia intenzione di chiedere a Dio il conto del suo atto. Perché compiendo quell’atto egli/ella si sente non solo esecutore di un comandamento, ma realizza una nuova condizione. In questo il fanatico omicida, non è come il profeta che si presenta come “parola di Dio”, è più dio di dio. Perché è colui (o colei) che realizza Dio e consente a Dio di vincere. Anche per questo, a differenza del profeta, il fanatico non è umile. È potente. Per questo il primo atto è detronizzare il fanatico dalla sua posizione di comodo di “antisistema” e di profeta.
Il fanatico oggi non è nient’altro che l’esponente del sistema. Per questo non è alternativo al tempo presente. È il tempo presente.
Il 7 gennaio 2015 non era la rivota dei “permalosi” o degli arrabbiati: era l’atto per prendere possesso della mente degli antifanatici, per sottometterci, uccidendo quelli che erano giudicati “irrecuperabili”. Come molte altre volte: “ucciderne uno per sottometterne cento”.
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