Geopolitica
Chi l’avrebbe detto: anche Al Baghdadi deve fare i conti col costo del lavoro
Chi fermerà il terrorismo? Qual è oggi il peggior nemico dell’Isis e di Al Baghdadi? L’America forse? L’Europa? I raid aerei in Siria o in Libia? O forse e meglio ancora, l’intelligence?
Niente di tutto questo. Il vero nemico pubblico numero uno per l’Isis è il costo del lavoro, come avviene in una qualsiasi azienda, anzi, come in un qualsiasi Stato che si rispetti. Pagare gli stipendi dei dipendenti dello Stato Islamico rischia di diventare, se già non è successo, il vero problema per la forza del Califfato che, del vero, già in queste ore viene data in fase discendente.
Secondo le più recenti stime proposte da Rand Corporation, uno dei più attenti think tank sui temi legati al terrorismo internazionale, lo Stato Islamico conta su qualcosa come 80.000 ‘dipendenti’ cui ogni 27 va garantito lo stipendio.
Si va dai 100 ai 400 dollari al mese (a seconda delle mansioni) cui vanno aggiunti i costi di vitto e alloggio per le migliaia di foreign fighters ospiti. Un vero esercito di dipendenti statali (fa sorridere chiamarli cosi ma lo sono a tutti gli effetti) che farebbe impallidire, con le debite proporzioni, paesi come Francia e Italia che di problemi di pubblici impieghi mastodontici ne sanno qualcosa.
Al Bagdhadi e i suoi ogni anno devono tirar fuori la bellezza di 390 milioni di dollari, malcontati, in stipendi. Secondo i numeri raccolti dall’analista Aymenn Jawad Al Tamimi (che ha analizzato, come campione, i conti dell’Isis in una provincia della Siria sotto il controllo del Califfo) il costo del lavoro grava per il 44% delle spese totali sostenute per mantenere i combattenti. A queste vanno poi aggiunte le spese non direttamente militari per la propaganda, la polizia, il sostegno alle famiglie, il welfare insomma e così via. Per difetto e tirando un riga in fondo a sinistra come in ogni bilancio che si rispetti, tutto il carrozzone statale costa, alle casse del Califfato, la cifra record di oltre 1 miliardo di dollari all’anno. Mica male per un sedicente Stato autoproclamato che si propone di sconfiggere l’Occidente.
Ma come si finanzia lo Stato Islamico?
Come ogni ‘governo’ che si rispetti anche l’Is chiede tasse e balzelli ai propri cittadini. Non è infatti vero quello che si dice, ossia che “il terrorismo viene finanziato con la vendita di petrolio”. O meglio, ciò avviene senza dubbio ma è solo una parte, per altro minoritaria, del bilancio statale.
Secondo le stime più accreditate infatti l’Is, dalla vendita di petrolio, incasserebbe qualcosa come 450 milioni di dollari all’anno. Un po’ poco, direte voi. In effetti si tratta apparentemente di una cifra modesta che però risulta perfettamente congrua con la capacità produttiva di petrolio dello Stato Islamico, pari oggi a poco più di 40.000 barili al giorno. Le limitate capacità tecniche di chi gestisce oggi i pozzi sequestrati dal Califfato, unitamente a luoghi stremati da anni di guerre e combattimenti che rendono molti difficile la logistica su ruota, hanno sensibilmente ridotto la capacità di produzione di quelle zone dai 500-600 mila barili al giorno del precedente decennio a poco meno del 10% di oggi.
Quindi Al Baghdadi dove trova i soldi necessari per pagare stipendi, servizi e coprire le buche per strada?
Il grosso delle entrate statali proviene infatti proprio dalla tasse. Eh sì, nemmeno nel giovanissimo Stato Islamico sono riusciti a fare a meno delle tanto odiate quanto occidentalissime imposte dirette e indirette. Più o meno volontarie, più o meno estorte, più o meno frutto di espropriazioni, le entrate tributarie annuali del Califfato raggiungono la ragguardevole cifra di 600 milioni di dollari.
Negli ultimi mesi, complice anche la perdita di alcune zone conquistate nel passato, la base imponibile della fantomatica Equi-Isis si è sostanzialmente contratta, costringendo di fatto lo Stato a fare i conti con l’eventualità, udite udite, di una spending review. Come un Governo-tecnico qualsiasi.
Perché se è vero che lo Stato Islamico può contate su riserve di un paio di miliardi di dollari, accumulate negli ultimi anni col sequestro della liquidità contenuta nei forzieri di alcuni istituti di credito che si trovavano nelle zone finite sotto il loro controllo, è anche vero che queste risorse sono, in primis, per definizione non-infinite se utilizzate. Ma soprattutto sono distruttibili, come in effetti si sono dimostrate in questi mesi in cui i bombardamenti hanno mandato letteralmente in fumo decine di milioni di dollari detenuti nei forzieri del Califfato. A conferma quindi che la strategia di isolamento economico sta dando i primi significativi risultati.
Una situazione economica quindi tutt’altro che rosea che sta costringendo il Califfo a mettere in campo una manovra, questa volta solo metaforica per fortuna, lacrime e sangue: una drastica riduzione dei salari del 50%.
Le difficoltà finanziarie del Califfo del terrore quindi sono reali e forse, come il leone che diventa aggressivo quando ha fame, sarà questo motivo che negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una intensificazione dell’attività terroristica contro il nemico europeo, quasi a dimostrare il fatto che il Califfo ha il fiato sempre più corto e non può più permettersi di temporeggiare. O forse, permettetemi la cinica freddura, perché Al Baghdadi vuole evitare di dover dire ai suoi concittadini, vista l’aria di Austerità che aleggia: “ce lo chiede l’Europa”.
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