Bruxelles

Attentati di Bruxelles sono l’ultima azione di Salah dalla sua cella

24 Marzo 2016

Salah Abdeslam dice e non dice. Fa sapere di voler dire, ma non svela niente. Soprattutto, dopo il suo arresto, questo ventiseienne di origine marocchina, nato e cresciuto in Belgio, nel quartiere Molembeek di Bruxelles, nulla dice del progetto di attentato organizzato da gente che conosce bene, che fino all’ultimo momento lo ha protetto e nascosto. Troppo singolare per non pensare un perfido doppio gioco.

Partiamo dall’inizio, dalla sera del 13 novembre a Parigi. Salah Abdeslam fa parte di uno dei commandos che entrano in azione. Vede saltare in aria suo fratello Ibrahim, ma al momento di trasformarsi in un kamikaze, probabilmente ci ripensa. Un vigliacco, dunque? Se così fosse, il Califfato dell’Isis dovrebbe inseguirlo ed eliminarlo. E così pare in un primo momento: Salah infatti chiama due vecchi amici del suo quartiere per farsi riportare in Belgio e trovare rifugio. Due amici, non due soldati del califfato.

In quei giorni, anche attraverso sapienti indiscrezioni lasciate trapelare alla stampa e dagli appelli dei familiari, sembra che Salah sia braccato dalle polizie europee e dagli squadroni dell’Isis. Fa sapere che è stanco di nascondersi. Appare come un uomo inseguito da mezzo mondo, destinato presto ad arrendersi, costretto a nascondigli di fortuna.

Solo quattro mesi dopo scopriamo che in realtà Salah è sempre rimasto nascosto a Molembek, tra la gente del suo quartiere che in qualche modo lo protegge con un’omertà di appartenenza che somiglia molto a quella che in certe zone della Sicilia ha protetto per anni la latitanza dei grandi boss. Non solo, è rimasto nell’orbita della sua cellula terroristica che aveva già colpito a Parigi.

Martedì 12 marzo, sulla base di alcuni indizi, scatta un blitz della polizia belga nel quartiere Forest di Bruxelles. Sparatorie, ore di frenesia. Due scappano, un uomo resta ucciso. Nell’appartamento ci sono tracce fresche di Salah Abdeslam: è sfuggito alla cattura. L’uomo che ha sparato contro la polizia per proteggere la fuga dei complici e che è rimasto ucciso si chiama Mohamed Belkaid: è stato il regista dell’azione di Parigi, il coordinatore dal Belgio degli attacchi del 13 novembre.

Salah è stato riaccolto nell’Isis, dunque? O la sua cellula belga si muove con una certa autonomia rispetto al Califfato nero? Domande rafforzate dal fatto che nel covo, oltre a detonatori e armi d’assalto, si trovano le impronte dei fratelli Khalid e Ibrahim El-Bakraoui e di Najim Laachraoui, tutti e tre ora ricercati. E’ bene ricordare questi nomi perché ricompaiono presto e forse svelano il doppio gioco di Abdeslam.

Venerdì 17 marzo Salah viene catturato a Molembeek. Questa volta non riesce a sfuggire. I procuratori di Parigi e di Bruxelles celebrano l’operazione della polizia belga. Accanto a Salah si presenta l’avvocato superstar Svan Mary. Chi ha contattato e chi paga il principe del foto belga? Non si sa. Si sa, invece, quello che l’avvocato si affretta a dire: Salah è disposto a collaborare.

Ma cosa dice e cosa vuole dire alle autorità beleghe Salah Abdeslam? Pur essendo rimasto nascosto nel giro della cellula terroristica del Belgistan, pur non avendo perso i contatti con loro (come dimostra più di un indizio trovato nei covi di Forest e di Molenbeek), nulla dice dei progetti di attentati a Bruxelles e della loro fase di attuazione. Qualunque magistrato o investigatore che si sia occupato di criminalità organizzata – o di terrorismo – sa bene che di fronte alla decisione di collaborare di un arrestato, la prima cosa da chiedere è qualche fatto immediatamente riscontrabile: ad esempio, un deposito di armi o il rifugio di un latitante o un progetto di attentato in corso, appunto. Informazioni verificabili che danno il segno dell’attendibilità della decisione di collaborare con la giustizia. E questo va fatto a caldo, subito dopo l’arresto, prima che i complici abbiano il tempo di modificare le cose.

Ma Salah non dice niente dell’attentato. Fa solo sapere che vuole collaborare: e questo sembra un avviso a chi deve mettersi al riparo. Riletta subito dopo gli attentati di Bruxelles, somiglia addirittura a una parola d’ordine lanciata dal carcere ai compagni del terrore ancora liberi: fate presto, accelerate le operazioni in corso. Un segnale lanciato proprio ai fratelli El-Bakraoui e Najim Laachraoui, i kamikaze che si fanno saltare in aria all’aeroporto e alla metro di Bruxelles. Se le cose stanno così, gli attentati del 22 marzo non possono essere la vendetta dell’Isis per l’arresto di Salah. Ma, piuttosto, l’ultima azione di Salah dettata direttamente dalla sua cella.

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