Terrorismo
2016, Occidente e terrore. Come si fa, la guerra agli zombie?
A me invece – sentendo le ricostruzioni sulla vita di Mohamed, ancora meno “militarizzata” e “ideologizzata” di quella di Salah, che pure era sostanzialmente uno “scappato di casa” – viene da pensare agli zombie.
Se ne parlava l’altra sera tra vecchi compagni di classe: nelle storie di zombie, persone che fino all’altro giorno magari non ti piacevano, ma che mai avresti immaginato ti avrebbero fatto del male (non avendone motivo), a un certo punto vengono attaccati dal morbo. E scoppiano.
Incominciano a fare del male apparentemente gratuito e immotivato, a una mole crescente di loro prossimi, e col loro esempio (o morso) infettano le menti e le voglie di altri loro simili. Il disagio diventa voglia scriteriata e disperata di sangue, o di distruzione. Il morbo che trasforma in zombie, a quel punto, non è più altro che una scusa per accrescere la spirale. E generare altro male, generare altri zombie.
Dobbiamo esserne consapevoli: è estremamente difficile fermare uno zombie. Uno zombie è capace di tutto. Anche di prendere un tir e lanciarcisi alla guida su una folla di inermi ed indifesi. E come lo fermi? Come previeni una cosa del genere? Certo, gendarme, potevi non credere al francese di origini tunisine, nato sulla Costa Azzurra, a Sousse, che ti ha detto di star attendendo per la consegna di gelati. Lo potevi almeno aprire, quel maledetto tir.
Ma uno zombie, alla lunga, o alla media, non si ferma: continuerà a covare quella sete di sangue. E se non ai fuochi della Rivoluzione con un tir, ci riproverà con una botticella agli inizi di agosto, o nella notte di San Lorenzo. Uno zombie non si ferma, non si ferma uno a cui della propria stessa vita non frega più nulla.
E però, a noi che teniamo alla salute di questa società, a noi che ogni ferita diventa sempre più insopportabile ma che allo stesso tempo ci è dolorosamente sempre più indifferente (perché quando sono troppe poi non le senti più), a noi interessa capire cos’è questo morbo, come si sconfigge, come ci si fa degli anticorpi abbastanza efficaci.
Nell’interrogarci sul perché e il per come di questo morbo, o almeno di ciò che lo trasforma in istinti mortali terribilmente ciclici e fatali, abbiamo spesso paura di riconoscere che purtroppo c’entra qualcosa con la religione, con la fede. Questo perché abbiamo imparato a rispettarle, e a considerare la diversità foriera di bene, piuttosto che di male. E no, non abbiamo sbagliato in questo. Affatto. L’Occidente – non senza causare spesso danno, guerre, morte – si è in qualche modo “appropriato” di questa diversità, l’ha conquistata, ne ha fatto una enorme forza. E il punto non è e non sarà mai rinnegare questa conquista.
Mohamed, si dice in queste ore di notizie convulse, non era neanche un musulmano praticante. Depresso, sulla strada della separazione con la moglie e i figli, un impiego scadente e malpagato. Non un estremista islamico, di fatto. Mohamed si sveglia un giorno e decide che vuole fare una strage. Prende un tir – uno con cui era solito lavorare, o affittato per l’occasione, poco importa – riesce a penetrare nell’area della città chiusa per sicurezza con la scusa della consegna dei gelati, ci sta fino alla seconda serata, poi la follia. Mohamed, che fondamentalista non è, prima di morire fermato dagli spari dei gendarmi, però urla “Allah Akbar!”. Perché?
Il profilo neutro, “socialmente emarginato”, del terrorista occasionale, fosse confermato, rivelerebbe una verità ancora più inquietante di quella della cellula addestrata e militarizzata. Quest’ultima sarebbe una figura già nota e digerita, non meno pericolosa ma almeno “compresa”, non solo delle forze di sicurezza, ma anche della pubblica opinione: un combattente, un nemico, un portatore di guerra in casa propria. Da annientare per difendersi. Quella dell’atomo umano depresso e svuotato, che invece di farla finita con sé stesso, decide – o sente l’istinto – di farla finita con un numero più o meno elevato di “altri”, invece, rappresenterebbe la discesa in campo proattiva di un nichilismo non più solo autodistruttivo ma pienamente distruttivo, teso all’annientamento di un angolo di società. Quale società? Quella occidentale. Perché?
Nella comprensione di ciò non si può, non si può più, ignorare la componente ideologica che porta ad ammazzare, assieme a sé stessi, altre 84 persone in modo indiscriminato. La religione – in questo caso l’Islam, o una sua terribile distorsione. La fede come irrisolvibile “ricerca di senso” gioca la sua enorme ed indifferibile parte nel suggerire all’emarginato, e atomizzato e depresso e folle e chi più ne ha più ne metta, la cancellazione e la paura come ultimo atto finale. Atto, dicevamo, di ideologia pura e inarrestabile, potentissima: eccolo il morbo, quello che ha trasformato Mohamed in uno zombie. Un’ideologia, un’ideologia innegabilmente legata all’Islam. Con un grado o una distorsione che non conosco, e non mi sento di misurare, ma che tuttavia riporta, e mi fa paura riconoscerlo, all’Islam.
Come si fa, la guerra agli zombie? Sono tre i modi, quelli che riesco a farmi venire in mente.
Il primo è molto semplice: estirpare alla radice il morbo, annullarlo su scala globale. “Sganciando l’atomica”, suggeriva qualcuno nelle ore successive all’incidente (ma quale “incidente”?) di Nizza. Eliminando l’Islam in toto, e così eliminare anche il morbo che vi è legato. Un’idea, quella totalizzante, di “togliersi il pensiero”, che non vale neanche la pena trattare, per quanto sia infantile.
Il secondo: combattere ed isolare il morbo. Mi sembra più o meno quello utilizzato sinora. Guerreggiare lì dove il morbo sembra aver attecchito nella maggioranza delle persone, o dove addirittura il morbo è costitutivo di organizzazioni riconosciute, con un nome, di forze politiche e militari con una presenza visibile sul territorio. La guerra occidentale in Afghanistan, quella in Iraq, quella in Siria, sembravano aver questo come obiettivo per nulla taciuto: punire gli untori del morbo a casa loro, ed isolarli a casa nostra. Relegandoli in ghetti, ai margini della società, mostrando attivamente di non poter fidarsi troppo. Risultato: il morbo si è fatto esercito di conquista a casa loro (ISIS), e ideologia distruttiva, di nichilismo atomizzato, autonomo anche da qualsivoglia organizzazione militare, a casa nostra. Un atroce fallimento.
C’è una terza strategia, ormai l’unica che mi pare abbia reali – anche se complesse e prolungate – possibilità di successo: neutralizzare il morbo. Abbracciarlo, come farebbe un democristiano, per impedirgli di muoversi. Ridurre sino all’esiziale gli spazi e le chance per farlo attechire, proteggere e integrare “con la testa” i possibili futuri zombie, renderli parte della società che lo stesso morbo vorrebbe distruggere con visione (e metodo) irrazionale. Incanalare il conflitto in una cornice meno escatologica, e più sociale. Usare la politica, in buona sostanza. Una grande svolta politica, pienamente occidentale.
Ho letto, da persone che stimo nonostante evidenti e incolmabili distanze valoriali ed ideali, una risposta reazionaria ed identitaria all’attacco di Nizza. Una replica ormai stanca ed uguale a sé stessa ogni qualvolta l’Occidente viene ferito. Si scarica la colpa, tra le altre cose, sul progressismo che non sa notare le contraddizioni dei diversi, dei non occidentali, e sull’idealismo anche detto “buonista” che crede possa non esistere la violenza, che seda artificiosamente il conflitto.
Ebbene, in verità, il progresso e l’ideologia che ne prende il nome – il progressismo – *è* l’essenza stessa dell’Occidente. Saper tenere le mani a posto quando si deve, anche rinunciando alla violenza, *è* Occidente. L’idealismo pragmatico, non inerme, sincero con sé stesso e severo con gli altri, *è* Occidente. L’identità che dobbiamo – eccome se dobbiamo – recuperare per fare la guerra agli zombie, dovrà essere razionale, lungimirante ed inclusiva. Oppure non staremmo più parlando di Occidente: in tal caso, ne varrebbe davvero la pena?
@nicoloscarano
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